Seun Kuti & Egypt 80 – Live a Bologna
A fine maggio mi ha chiamato Maurizio, proponendomi di andare a Bologna ad ascoltare il concerto di un Kuti che non era Femi, ma che avrebbe suonato con gli Egypt 80, la storica orchestra Afrobeat di Fela Anikulapo Kuti. Non può che essere Seun Kuti, mi sono detto, un altro figlio di Fela del quale avevo scoperto l’esistenza grazie al video sul Rollback Malaria Festival di Dakar, recensito su questo sito.
Nonostante di Seun Kuti sapessi ben poco, il primo concerto degli Egypt 80 in Italia dopo tanti anni era evidentemente un’occasione da non perdere. Così, prima di partire mi sono informato, e ho scoperto che il giovane Seun è l’ultimo figlio di Fela, nato nell’82, e che alla morte del padre aveva appena 15 anni. Oggi ne ha ben 25, e da 2 o 3 anni ha afferrato le redini degli Egypt 80 per riprendere il percorso interrotto da Fela nel 97.
All’Estragon di Bologna, un teatro tenda fuori mano in mezzo al verde, arriviamo in ritardo, per colpa di una cena casalinga a base di cozze. Ci affrettiamo verso l’ingresso guidati dall’incalzare ripetitivo della sezione di fiati degli Egypt 80, che stanno intonando il tema di uno dei pezzi di Fela. L’eccitazione cresce.
Entriamo e veniamo investiti immediatamente dal groove teso e potente dell’orchestra nigeriana. Sul palco sono in diciotto: una batteria, un basso, due chitarre, una tastiera, una conga, uno shekere (una zucca ricoperta da una rete di conchiglie dal suono simile alle maracas), un bata (idiofono suonato con due grosse bacchette) e uno “stick” ( idiofono suonato con una bacchetta, il cui suono ricorda le claves), tre danzatrici coriste e la sezione di fiati formata da due baritoni, due trombe e un tenore, più il sax alto di Seun. Molti di loro sono anziani e hanno suonato con Fela. I baritoni sono due colonne portanti degli Africa 70 prima e degli Egypt 80 poi, Lekan Animasahun, più noto come Baba Ani, direttore musicale della band, e Adedimeji Fagbemi, alias Show Boy. Tra le danzatrici e coriste figura una certa Moturayo Anikulapo Kuti, mentre Kayode Kuti è al basso, anch’essi figli di Fela.
Nonostante l’acustica non sia delle migliori, gli Egypt 80 sono una vera locomotiva funky che si muove come un corpo unico. La sincronia è strabiliante. Mentre stick e shekere tengono la pulsazione costante dell’afrobeat, i riffs apparentemente semplici e ossessivi delle chitarre di David Obanyedo e Alade Oluwagbemiga e del basso si intrecciano con accenti e sovrapposizioni inusuali, rendendo il groove irresistibile. Nonostante non sia Tony Allen, il lavoro di Ajayi Raimi Adebiyi alla batteria è puro afrobeat, con i suoi raddoppi alla grancassa e il continuo lavoro di ricamo su tamburi e piatti, sino a quando Seun non chiama un break, a cui l’orchestra risponde all’unisono smorzando la musica, ma non il ritmo.
Le danzatrici si muovono sinuose in fondo al palco, purtroppo parzialmente coperte dagli altri membri dell’orchestra. Ma quando i loro sederi cominciano a vibrare e a pulsare, nel modo che solo le giovani youruba sanno fare, la temperatura, già alta, cresce ancora, e diviene rovente. Ho letto che la ben nota sensualità delle donne di paesi come Cuba e Brasile, i cui antenati furono deportati molti secoli orsono soprattutto dalle coste della Nigeria e del Benin con le navi dei negrieri spagnoli e portoghesi, derivi in gran parte dalla antica e straordinaria relazione che le donne yorouba hanno con il loro corpo, e della splendida naturalezza del loro rapporto con il sesso. Una meraviglia della cultura yorouba che andrebbe approfondita.
Ad un secco segnale di Seun all’unisono entrano i fiati, e con loro la tensione accumulata negli interminabili preludi improvvisamente esplode, poi si placa, quindi riprende a crescere. Come quando c’era Fela i pezzi degli Egypt 80 non finiscono mai, durano 20 o anche 30 minuti. Ad eccezione degli assoli dei sassofoni di Baba Ani, Show Boy e Seun Kuti, il sound è fortemente ripetitivo, ipnotico, circolare, e trascina il pubblico in una sorta di bollente trance. Più nella musica ci si avvicina al puro groove, più i personalismi dei musicisti perdono di importanza, e ciò che conta è la tensione, che ti investe come un’onda che cresce lentamente fino a diventare un muro ed esplodere nelle urla degli ottoni, fino a un nuovo break.
illustrazione di Maurizio Ribichini
Al termine della lunga introduzione strumentale Seun comincia a parlare e a cantare, sostenuto dal contrappunto del coro. Accanto a qualche vecchio pezzo di Fela scorrono brani originali come Mosquito Song, Na Oil, Fire Dance e Think Africa. La sua voce è profonda e graffiante e le sue parole pronunciate in pidgin english e yorouba sono difficili da comprendere fino in fondo, ma il senso è chiaro, e i suoi testi riprendono il discorso da dove Fela lo aveva interrotto. Parlano della situazione disastrosa della società nigeriana che, forse più che in altri stati africani è divorata dalla corruzione del potere, dalle assurde rivalità etniche, dall’ingiustizia e dalla violenza. Parla dei patti odiosi tra multinazionali del petrolio e avide oligarchie locali, che sin dai tempi dell’indipendenza si spartiscono l’incredibile ricchezza di un paese la cui gente comune invece vive nella più vergognosa povertà. La mente vola alla lotta del MEND, il Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger, che per il loro rifiuto a scambiare ostaggi con denaro, per il rispetto con il quale trattano i prigionieri fino alla loro liberazione e per la coerenza e fermezza con la quale affermano gli ideali di preserrvazione dell’ambiente naturale e di corretta distribuzione dei proventi del petrolio alle popolazioni locali stanno guadagnandosi la stima e la solidarietà della gente onesta del mondo.
A metà concerto Seun toglie la camicia di seta bianca ricamata, zuppa di sudore, e rimane a torso nudo. Sulla schiena ha tatuato una scritta, “FELA LIVES”, Fela vive. Poi comincia a danzare con movenze feline. Sembra di vedere Fela giovane. Corpo di gomma, muscoli allungati e guizzanti sotto la pelle nera e lucida, spalla larghe, bacino strettissimo e gambe lunghe e mobili. Danza come posseduto da Ogun, il dio guerriero del pantheon yorouba, muovendo il busto, le braccia e il sedere piccolo e rotondo, dando prova che la sensualità yorouba non è appannaggio solo delle donne.
Il conerto va avanti per oltre due ore, compresi i bis, e al termine abbiamo la sensazione di non averne avuto abbastanza. Gli Egypt 80 ci hanno dato un assaggio di cosa sia davvero l’Afrobeat, ci hanno dimostrato perché campioni del groove come Roy Ayers, Ginger Baker, James Brown, Bootsy Collins, David Byrne e Brian Eno siano rimasti folgorati da quel sound, ma noi non ci sentiamo sazi.
A questo punto si potrebbe avviare una discussione sulle differenze nelle strade intraprese dai due figli di Fela, Femi e Seun, ma onestamente non ne ho voglia. Quello che sento è che Seun Anikulapo Kuti e gli Egypt 80 mi hanno lasciato senza parole, lo stesso effetto che avrebbe fatto Lazzaro se una volta uscito dalla tomba avesse imbracciato un sax e attaccato a suonare Gentleman.
Seun Kuti non ha ancora pubblicato dischi, solo un EP, ma sono certo che presto questa lacuna sarà colmata. Lui spiega che intende fare musica per le nuove generazioni nigeriane, le quali oggi richiedono non più di essere svegliati con lo slogan di “alzati e combatti”, ma piuttosto “alzati e pensa con la tua testa”. Sembra che gli yorouba siano fieri di avere più Oba, più re che qualsiasi altra etnia africana. Beh, la sola famiglia Anikulapo Kuti oggi ha due re, Femi e Seun.