Mali – viaggio nella musica
Bamako, 7 marzo:
Ali Farka Toure, il leone del deserto, è morto di cancro. In Mali viene proclamato il lutto nazionale, e anch’io mi sento triste.
Era un sabato di febbraio, Toumani Diabate stava tornando da Los Angeles dove aveva ritirato il Grammy Award per il miglior disco di World Music tradizionale, vinto assieme ad Ali Farka Toure con l’album In the Heart of the Moon. Si trattava del secondo Grammy per Ali, dopo quello del 1995 per Talking Timbuktu, storico disco registrato assieme a Ry Cooder, grazie al quale il mondo ha scoperto la curiosa somiglianza tra blues e musica del nord del Mali.
Quel giorno Toumani è atterrato a Bamako dopo le 22. Quando è comparso, al di là della porta a vetri dell’areoporto, la folla accalcata dietro le transenne ha potuto finalmente liberare il suo entusiasmo. Come un fiume in piena lo ha circondato e lo ha trascinato verso la festa delle pecussioni che durante l’attesa si era scatenata sul piazzale accanto. Toumani ha salutato tutti, ma subito è salito in macchina e si è recato da Ali Farka Toure, che a causa della sua malattia non aveva potuto accompagnarlo negli Stati Uniti, e al quale ha voluto rendere omaggio consegnandogli personalmente il Grammy.
Ali non poteva e non voleva vedere nessuno, e nel buio piazzale di terra rossa antistante la sua residenza di Lafiabougou, a Bamako, dove durante il giorno si gioca a pallone, la folla al seguito di Toumani, che fino a poco prima era festante, ha atteso il tempo necessario senza far rumore. Quel buio della notte e quel silenzio di piombo riflettevano la tristezza di tutti. Poi il figlio maggiore di Ali è uscito dal portone del cortile e con un breve discorso ha ringraziato in bambara i presenti, credo anche a nome di suo padre. In questi giorni, dopo la sua morte, sembra che su quello stesso piazzale di Lafiabougou si siano spontaneamente radunati i cittadini di Bamako, per rendere omaggio a quell’uomo amato e ammirato.
Ali Farka Toure è nato nel 1939 da una famiglia nobile, nel villaggio di Kanau sulle rive del Niger, nel nord del Mali. Unico sopravvissuto all’infanzia tra i dieci figli dei suoi genitori, Ali Ibrahim ricevette il soprannome di Farka, che in sonrhai vuol dire mulo, perché gli fosse di buon auspicio. Sembra che Ali avesse in comune con il mulo la straordinaria resistenza alla fatica. Scherzando, lui si definiva un mulo che nessuno era mai riuscito a cavalcare. Dopo la morte del padre, all’età di quattro anni, Ali si trasferi con la famiglia nel villaggio di Niafunke, dove tuttora aveva la sua residenza assieme a sua moglie e i suoi undici figli.
Musicista non per nascita, ma per passione, fu fulminato dall’incontro con il chitarrista guineiano e leader dei mitici Les Ballet Africains Fodeba Keita, anch’egli di nobile discendenza, che in seguito divenne ministro e poi fu arrestato e ucciso per alto tradimento sotto il primo governo indipendente di Guinea guidato da Sekou Toure. Da allora, oltre a cantare, suonava la chitarra elettrica e il njarka, un violino tradizionale ad una corda che lui stesso si costruiva.
Lontano più che mai dallo stereotipo della rock star, Ali è sempre rimasto ostinatamente orgoglioso della sua cultura e attaccato alle sue radici, snobbando le lusinghe dei discografici e le possibilità di vita comoda provenienti dal mondo dello show business. Come altri artisti maliani, anche lui ha utilizzato il denaro guadagnato con la musica per contribuire in qualche modo alla prosperità della sua terra e della sua gente, finanziando progetti nell’area di Niafunke per lo sviluppo dell’agricoltura e per la difesa dalla desertificazione.
Nella tournée del 2001 lo ascoltai per la prima volta a Villa Ada, durante la manifestazione Roma incontra il mondo, in uno dei concerti più belli e intensi a cui io abbia mai assistito. Assieme a lui c’era anche il suo discepolo Afel Bocoum, avviato da tempo a raccoglierne l’eredità artistica e carismatica. Conoscendo i dischi di Ali mi aspettavo che il suo blues ipnotico trascinasse tutti noi in un tranquillo viaggio in terre lontane, fatte di sabbia, vento e sole. Ma scoprii che, rispetto ai dischi, la musica di Ali suonata dal vivo era non solo potente ma anche giocosa e, incredibile a dirsi, irresistibilmente ballabile. Grazie al groove del calabash, una mezza zucca rovesciata percossa con i palmi delle mani e con due bacchette, del djembe e delle congas, l’intero pubblico si è ritrovato trascinato nelle danze un attimo dopo l’inizio del concerto.
Ma ciò che davvero rese quel concerto un evento irripetibile fu la personalità straripante di Ali Farka, trasmessaci grazie al sue evidente desiderio di comunicare, di entrare in contatto con tutti noi per lasciarci non semplicemente la sua musica, ma un pezzo della sua umanità, attraverso la quale siamo entrati in contatto con la forza e la profondità di una cultura nobile e antica. Tra un brano e l’altro Ali parlava, con il suo sorriso e la sua voce calda raccontava del Mali, della sua intenzione di ritirarsi per darsi all’agricolutra, perché un uomo deve ritornare sempre al contatto con la sua terra e con il lavoro. E poi parlava del blues, definendolo rami e foglie di una musica il cui tronco e le cui radici erano in Africa. Poi, uno dopo l’altro, ha suonato i suoi brani più famosi, come Amadrai, tirando fuori dalla sua chitarra elettrica riffs ruvidi e primordiali. In alcuni casi era davvero difficile non pensare che i suoi incredibili assoli non provenissero dal delta del Mississipi, ma io non lo credo. E’ mia convinzione personale, avendo percepito l’integrità di un uomo, che la sua musica fosse quello che lui diceva, un frutto africano, nato dalla sabbia, dal vento, dal sole implacabile, delle acque negre del fiume che, con la stessa determinazione degli uomini che vivono sulle sue sponde, entra nel deserto e ne viene nuovamente fuori migliaia di chilometri più avanti.
Ho rivisto Ali Farka l’anno scorso, in luglio, nel suo concerto all’Auditorium di Roma durante la sua tournée con Toumani Diabate. Rispetto al concerto di Villa Ada la sua performance sembrava opaca e senza incisività, e lui stesso appariva stanco e distante, ma oggi forse posso spiegarmelo: la sua malattia doveva già essere ad uno stadio avanzato. Io non lo sapevo, nessuno lo sapeva. Inconsapevolmente stavamo assistendo a una delle sue ultime esibizioni in pubblico.
Quest’anno uscirà il suo ultimo disco, registrato un anno fa all’hotel Mande di Bamako, sul Niger, nella stessa sessione in cui sono stati registrati In the Heart of the Moon e il nuovo disco di Toumani Diabate, Boulevard de l’Independance. Come lui certamente desiderava, la sua musica continuerà ad attrarre l’interesse verso quell’angolo remoto del mondo che è il Mali, un paese incredibilmente povero economicamente ma, allo stesso tempo, straordinariamente ricco di cultura e di amore, abitato da gente inaspettatamente forte, pacifica e ospitale.