Uboxing Iron Maiden
Estrarre dieci brani da una discografia imponente come quella degli Iron Maiden non è stato facile. La scelta, ardua e ragionata non deve essere interpretata come “i 10 migliori brani di”, ma ha l’intento di raccontare un sentiero lungo ed impervio iniziato nel 1980.
Pertanto la lettura di queste dieci tappe sono da leggere come un racconto atto a seguire un’evoluzione innegabile, che ha portato la band del West End a modificare il proprio stile.
Il percorso proposto, parte inevitabilmente con l’anthem per eccellenza: Iron Maiden. Un brano breve e tirato in cui la voce di Paul Di’ anno trova il suo habitat naturale, mostrando i podromi di un metal stradaiolo e genuino che, pur volendosi allontanare dall’imperante Punk ’77, sembra ancora oggi nascondere influssi indiretti.
Arrivati al secondo album la band continua il suo viaggio con Killers, in cui il trait d’union sembra essere quella morte che fa da sfondo al disagio sociale di Wratchild e Drifter. Un’ambientazione metaforizzata dalla splendida cover Art di Derek Riggs, pronto a raccontarci la periferia della titletrack, in cui il tema della follia, tanto caro alla band, inizia a porre i primi germogli.
Nel 1982, dopo l’allontanamento dell’ingestibile Di’ Anno, i Maiden trovano una voce diversa, più acuta, estesa e teatrale: Bruce “The air red siren” Dickinson, che contribuisce alla realizzazione di un album iconico, in cui ritroviamo brani straordinari come l’oscura cupezza di Hallowed be thy name e i riff cavalcanti di Run to the hills. Però, il brano più rappresentativo è, senza troppi dubbi, ancora una volta la titletrack di The number of the beast, visionaria e Iconica che finirà per alimentare l’insensata censura anni ’80.
L’anno seguente (1983) gli Iron tornano alla follia con Peace of Mind, uno degli album più letterari. Tant’è vero che la maggior parte delle tracce sembra prendere ispirazione dai romanzi, saggi o film. Tra le tracks più rappresentative, appare ovvio e banale, ritroviamo The Trooper. La traccia, ispirata alla storia e alle battaglie del passato, trova il punto di partenza in The clarge of the light brigade, poema di Alfred Tennyson.
La strada della band fa poi tappa tra le piramidi dell’Antico Egitto con un album perfetto, in cui ritroviamo brani senza tempo come Aces High e 2 minutes to midnight, ma, a mio avviso, il composizione più interessante e coraggiosa di questo periodo è Rime of the ancient mariner, in allora la composizione più lunga mai pubblicata dalla band (13 minuti e 45 secondi). La traccia, vestendosi da suite, porta in musica Samuel Taylor Coleridge, attraverso un mood narrativo ancora oggi inarrivabile; un’alternanza di strutture emozionali in grado di trasportare l’ascoltatore in una storia carica di inquieta forza espositiva.
Usciti dallo sfiancante World Slavery Tour, gli Iron Maiden portano a compimento un primo cambio di rotta ammorbidendo il ruvido sound con l’introduzione di sintetizzatori. I temi di spazio, tempo e futuro portano Adrian Smith a firmare le armonie accoglienti di Wasted Years, una composizione lucente e aperta che, dal riff iniziale, ci trascina verso un inciso liberatorio.
Nel 1988 la band arriva all’ultimo grande album: Seventh son of a seventh son, un vero e proprio concept in cui l’impronta progressive inizia a farsi sentire tra synth e riff. Difficile definire il brano più rappresentativo perché Can i play with madness e Only the good die young rappresentano solo due delle tante gemme proposte. Dopo tanto elucubrare ho scelto di porre l’accento su The clairvoyant, il cui straordinario incipit ci invita tra i sogni e la realtà di un brano troppo poco considerato e in presa live.
Da qui in poi i Maiden, almeno per tutti gli anni novanta, non sono stati più gli stessi; Adrian Smith lascia la band, viene pubblicato il peggior album sino ad allora (No prayer for the dying), Derek Riggs non è più coinvolto nell’opera di illustrazione e quel che è peggio l’iconica voce di Bruce viene sostituita da Blaze Bayley. Il nuovo vocalist, talentuoso e umanamente straordinario, non si dimostra all’altezza. D’altro canto sostituire Dickinson di certo non è stato facile.
Nonostante tutto però sento il dovere di annoverare tra i 10 brani più significativi per scoprire gli Iron Maiden anche Man on the Edge, traccia fondamentalmente catchy che, volenti o nolenti, rappresenta un periodo di transizione non del tutto negativo.
Il mondo di Steve Harris e soci torna poi alla normalità con il ritorno del figliol prodigo. Infatti, all’inizio del nuovo millenio Dickinson torna a casa, aprendo una vera e propria fase progressive, che trova complimento nell’album Dance of death, in cui la sperimentazione porta a sonate lunghe e inusuali, proprio come dimostra Journeyman, pronta a proporre un’solita impronta acustica.
Per chiudere questa breve carrellata, ho scelto un brano estratto da Senjutsu, a mio avviso il miglior album da molti anni a questa parte. La mia preferenza è caduta su di un brano assente nella setlist di The Future Past tour: The parchment. La lunga traccia, straordinaria nel suo interludio strumentale, offre un ideale punto di arrivo, perfetto per analizzare e comprendere quanto i Maiden, dagli albori ad oggi, abbiano mutato il proprio stile lungo una strada che li ha portati dall’ingenuità di Running free, sino alla soglia della Rock and Roll Hall of Fame.