La Gabbia “Madre nostra”, recensione
Pochi secondi per innamorarmi dei La Gabbia
Timbro graffiato, sound grezzo e granulare, aperture armoniche e sound intenso e battente. Si potrebbero riassumer così i La gabbia, versatile quartetto felsineo guidato dalla straordinarietà vocale di Michele Menichetti, apice costitutivo di una band giovane, ma già molto ben inquadrata.
La qualità del suono proposto dal lavoro di Mix e Masterizzazione curata da Davide Lasala e Andrea Fognini, appare evidente ed immediata su brani primari come Violenza, in cui cambi direttivi e solida struttura offrono all’ascoltatore un inevitabile pogo liberatorio.
Se poi con Memorie di una prostituta e La luna e i falò l’impatto espressivo viene calmierato dalla struttura pacata di una narrazione definita da un songwriting accorto, è con Ho bisogno che si torna ad impulsi discorsivi e ininterrotti, pronti a virare sui “frusciantiani” passaggi chitarristici di Agrabah, deformati da intuizioni stoner, alternate ad una sezione ritmica portante e ben equilibrata.
A chiudere il disco, promosso da Fleisch Agency e YCR, sono le note dilatate sottili di La fine e l’inizio di una vita, in cui la pacatezza proto-desertica apre al suono delle dita sulle corde raccontate da Non esisti, ballata delicata e sognante quanto la perfetta opera di cover art (curata da RedKids Design), dalla quale emerge metaforicamente una dicotomia artistica, specchio reale di una band su cui posare un attentivo sguardo.
Tracklst
- Ilaria
- Violenza
- La luna e i falò
- Memorie di una prostituta
- Ho bisogno
- Agrabah
- Non Esisti
- La fine e l’inizio di una vita