Hellamor-Vs. Red stone Chapel, “Major league Heavy -Rock”, Recensione
Considerando che negli ultimi anni Hellamor e Red Stone Chapel hanno condiviso il palco più volte, probabilmente è parso naturale il considerare la realizzazione di un split album, figlio di un periodo costrittivamente statico, ma di certo, carico di idee. Una strutturazione dicotomica ben metaforizzata dal bi-cromatismo che domina la cover art intenta a mostrare due fianchi di un unico stile.
Il lato A del vinile, uscito per Go Down Records, è raccontato dal doom heavy rock degli Hellamor, talentuosa band di Highdelberg dedita a sonorità diluite in sostanze doom, in grado di conquistare sin dal primo ascolto attraverso le sonorità sporche di Fallen Saint e mediante gli sviluppi cavalcanti dell’ottima Hourglass, probabilmente la miglior traccia dello split. Infatti, le ritmiche on the road mutano il proprio percorso più volte, definendo dapprima una struttura heavy (che sarebbe piaciuta di certo a Mr. Kilminister), per poi virare su divergenze emozionali un grado di trascinare l’astante verso un onirico viaggio.
Sul medesimo orizzonte comunicativo si pongono le striature Zack Wilde di I can Hear it, in cui la vocalità si avvicina al più recente James Hetfield, e le estensioni di Never Taught me, in cui la linea vocale tende a deformarsi rendendo la narrazione più teatrale, cupa e distorta.
Il battito delle pelli ci invita poi ad alzare la puntina per cambiare lato in modo da immergersi nel profondo blues dei Red Stone Chapel e della loro The paper King, in cui emergono immediatamente le toniche di una band davvero degna di nota. L’overture appare immediatamente un vero e prorpio anthem imprescindibile, in cui i cambi umorali determinano i contorni di un piccolo capolavoro ricamata su estensioni, distorsioni e divergenze che definiscono i contorni di un brano complesso e fagocitante. La progressione sonora di Progress in work conferma le intenzioni, raccontandoci di una linea vocale che definirei semplicemente notevole. Infatti i graffi folli che si percepiscono dalle strutture espositive narrate da Dimi Tzouvaras mostrano una linea evolutiva davvero efficace. La mescolanza ardita, posta tra i clichè del classic blues e i battiti corposi di sonorità contemporanee, definiscono un trip vero e proprio, pronto a condurci sulle note di Genius Junction. La composizione, proposta in presa live perde pulizia mostrando un’impronta perfettibile, ma la sensazione è di breve durata, perché, con la chiusura lasciata a Thieves in the attic si percepisce la voglia di uscire dalla normalità di oggi per buttarsi in un pit danzante e pogante, trainati da una sezione ritmica cadenzata e da un riffing sporco e travolgente.
Nulla più da aggiungere… se non una ridondante chiosa in grado di ricordarvi che, nonostante il formato split (che soggettivamente non ho mai amato), questo è un disco da avere, ascoltare e storicizzare, dimenticando l’orrore della musica usa e getta.