Zagara “Duat”, recensione
Mi ritrovo ad osservare il curatissimo digipark di Duat e mi perdo nella cover Art di Beppe Conti, abile a portare con sé un funzionale puzzle visivo e visionario. Un’opera artistica in cui simbolismo, surrealismo e rimandi occulti offrono la giusta veste ad un disegno tutt’altro che immediato. L’opera, edita da ODR, infatti, gioca con sonorità Psych-Rock, in cui entrare in punta di piedi, a patto di mostrarsi disposti ad un attentivo ascolto. Per rendervene conto vi basterà entrare in sintonia con l’incipit Maat, particolare costruzione sonora in costante mutamento.
La giovane band sabauda, attiva dal 2017, arriva le stampe con un disco piacevolmente inquinato da contaminazione divergenti, in cui l’acidità dei suoni (Se ho fame) si affianca a giochi visionari (Apophis), pronti a narrare nebbie inquiete e striature oniriche, tra cenni Noise e distorsioni sensoriali che si palesano come un vero e proprio climax.
Una set list da spulciare con calma e attenzione, in cui si potranno trovare movimenti particolari (Pezzi di ossa), che ha tratti riportano la mente la linea vocale degli Snaporaz (Il giardino dei tarocchi). Tra le tracce più interessanti, sembra emergere l’estensione di Amnesia, desertica e ossessiva che pare affondare nel mondo seventies, qui richiamato anche dal concetto stesso di concept album posto tra una dicotomia semplice (ordine e caos).
Insomma… un album tutt’altro che immediato, dai diversificati e multipli livelli di lettura.