The piper on the moon: la storia dei Pink Floyd capitolo 3

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Agli inizi del 1970 i Pink Floyd (di ritorno dall’Italia dove, convocati per comporre la colonna sonora di ZABRISKIE POINT, film del celebre regista Michelangelo Antonioni, si scontrano con la sua forte – e poco lungimirante – personalità, con la conseguenza che solo pochi – e minori – brani del gruppo inglese verranno inseriti nel soundtrack) cominciano a proporre in concerto una nuova suite intitolata “The amazing pudding”: è una versione embrionale, ancora priva di orchestrazione, di “Atom heart mother”.
Questa lunga composizione segna un importante punto di rottura con il passato: in linea con le contemporanee (e spesso velleitarie) commistioni rock-orchestrali dei Procol Harum, dei Moody Blues, dei Nice e dei Deep Purple, i Floyd, pur mantenendo ancora un piede nelle recenti sperimentazioni psichedeliche, cominciano a strizzare l’occhio ai primi vagiti progressive.

Da questo punto di vista, a parte le stucchevoli infatuazioni classiche sopraccitate (che sono solo uno dei punti di partenza del progressive inglese), i Pink Floyd sono veramente l’anello mancante, il ‘trait d’union’, tra musica psichedelica e musica progressiva, se vogliamo più correttamente intendere quest’ultima, nelle sue produzioni artisticamente più elevate, come figlia della migliore psichedelia.

L’album ATOM HEART MOTHER, uscito alla fine del ’70, è il primo disco dei Floyd a raggiungere il primo posto della classifica inglese.

Il titolo ce lo spiega Nick Mason: “Venne fuori da un titolo di giornale su una donna incinta che era stata tenuta in vita con uno stimolatore cardiaco atomico. C’è un nesso tra le mucche e il titolo, se si pensa alla madre della terra – ‘mother of the earth’ – e al cuore della terra – ‘heart of the earth’”.

La title-track è una suite composta da sei movimenti, splendida e coerente nel suo dipanarsi in forti e piani, nel suo alternare potenti pieni orchestrali a placide divagazioni quasi acustiche: se c’è un debole, è proprio nell’eccessiva, a tratti, pomposità degli interventi orchestrali, a scapito di una genuinità più propriamente rock.
Altri tre brani sono appannaggio dei tre compositori del gruppo: la soave, sognante “If”, del miglior Waters; la ballad classicheggiante “Summer ‘68”, di Wright; infine “Fat old sun”, bella prova compositiva di Gilmour.
Chiude l’album l’eccessivamente pretenziosa “Alan’s psychedelic breakfast”, esperimento, non propriamente riuscito, finalizzato a tentare di costruire un ponte sonoro tra atmosfere acustiche e i rumori quotidiani di una cucina, il tutto con l’idea di creare un clima di fondo sostanzialmente psichedelico.

All’inizio dell’anno successivo la band inglese comincia a elaborare (prima in studio e poi dal vivo) una nuova suite, intitolata dapprima “Nothing – Parts 1 to 24” e successivamente “The return of the son of nothing”: sono le prime incarnazioni di “Echoes”, nuova straordinaria prova sonora del verbo progressivo floydiano, punto cardinale del nuovo lavoro, MEDDLE, in uscita a fine ’71.

In quest’album le propensioni barocche e gli orpelli orchestrali, retaggio essenzialmente di Rick Wright, vengono messi da parte in favore del recupero di una dimensione strumentale più squisitamente rock, anche se rivista attraverso gli ormai classici canoni del suono Floyd, sempre più orientato a bilanciarsi tra oniriche, ipnotiche escursioni soniche debitamente prolungate e placide ballate comunque innervate da sonorità decise.

L’album comincia con “One of these days”, un brano ossessivo, trascinante, tutto sbilanciato nell’amplificazione e nella reiterazione di poche note di basso: decisamente sperimentale nella sua ardita concezione, ma, altrettanto decisamente, troppo autoreferenziale.
Tra le song successive spiccano la morbida atmosfera acustica di “A pillow of winds” e “Fearless”, ballata conclusa dall’inserto di “You never walk alone”, il coro dei tifosi della squadra di calcio del Liverpool.

Il capolavoro del disco (e uno dei capisaldi dell’intera arte pinkfloydiana) è, però, come abbiamo già detto, la suite “Echoes”: qui il classico suono Floyd, ormai prossimo alla maturità sia espressiva che commerciale, viene fuori in tutta la sua caratteristica imponenza, magico connubio di sperimentazione e melodia.
Il brano, lungo oltre 23 minuti, non soffre assolutamente la distanza, in quanto propone continue variazioni sul tema, guidate ora dalle languide ma corpose sonorità della chitarra di Gilmour, ora dalle liquide ma pregnanti note delle tastiere di Wright, il tutto corredato dal drumming, discreto ma essenziale, di Mason.

Con l’inizio del nuovo anno il gruppo comincia a proporre dal vivo (mi piace qui ricordare come i Pink Floyd abbiano sempre utilizzato – almeno fino al tour precedente l’album WISH YOU WERE HERE – il palcoscenico alla stregua di uno studio di registrazione, per provare e sperimentare, cioè, nuove sonorità o, addirittura, nuove composizioni) una nuova suite, provvisoriamente intitolata “Eclipsed” e composta da singoli brani collegati tra loro.
In breve questo nuovo soggetto musicale cambia titolo in “The dark side of the moon – A piece for assorted lunatics” e sarà, continuamente rimodellato, la colonna portante dei concerti dei Floyd per l’intero ’72.

Nel frattempo compongono, registrano e pubblicano OBSCURED BY CLOUDS, colonna sonora del film LA VALLEE, del regista Barbet Schroeder (lo stesso del film MORE).
Il lavoro è, francamente, deludente sotto tutti gli aspetti: anche se organizzato in forma di concept album (secondo una modalità cara a Waters e che rifulgerà, con ben altra caratura, negli album successivi), appare una (brutta) copia delle sonorità che i Pink Floyd hanno già prodotto o che stanno, in quegli stessi mesi, assemblando per il boom dell’anno seguente.
L’unico brano importante è “Free four”, non tanto per la musica quanto per il testo, dove appaiono, per la prima volta, alcuni riferimenti autobiografici di Waters che tanto peso avranno nelle produzioni a venire.