La storia dei Crass, recensione
Non ho mai ben capito perché, sia a livello musicale sia a livello sociologico, quando si parla di Punk si tende spesso a dimenticare i Crass, e ho scritto Crass e non Clash, tanto da citare la loro White punk on hope. Forse perché l’anarcho punk è ancora oggi ghettizzato in un anfratto del già discriminato mondo marcio?
È anche vero che il punk 77 è stato solo una fulminea volontà fabbricata, che, se non fosse stato per quei iniziatici pantaloni rossi di McLaren, probabilmente non avrebbe potuto dare i lustrini del no future a Johnny Rotten, che oggi, nel tentativo di purificarsi il proprio ego, ha vietato l’utilizzo del proprio nome di allora, in favore del suo anagrafico John Lyndon.
Il punk di trent’anni fa fu scheggia folle e generatrice di divergenti correnti alternative come il cosiddetto Peace punk, in qui argomentazioni anarcoidi e sociali presero piede attorno a quello che La storia dei Crass di George Berger racconta nelle sue 200 pagine di follia e razionalità.
Il libro edito da Shake Edizioni ( e chi altrimenti??) parte dalla Londra 1978, anno presunto della prematura scomparsa del punk, nonostante a Covent Garden il simbolo RossoCrociato raccontava che la Germania aveva avuto la banda Baader Meinhof, mentre l’Inghilterra continuava ad avere il Punk . Un punk procrastinato non di certo dalle divergenze stilistiche di Strummer, già dal secondo album distante dal movimento radicalmente inteso. Il libro di Berger, ben strutturato nei suoi 18 paragrafi, racconta in maniera narrativamente coinvolgente la storia di Steve Ignorant, Penny Rimbaud e soci, attraverso la filosofia del Do It Yourself, che portò non solo allo stimabile rifiuto del mainstream, ma anche alla consequenziale creazione di label come la Crass records.
Le pagine racconta attraverso la voce dei protagonisti, i ricordi e le memorie del recente passato, assestato tra l’arte di Gee Vaucher e la Dial House, fucina inesauribile di squilibrio creativo, senza dimenticare l’importanza germinale di Wally Hope visionario pensatore underground. La shake regala quindi a fan, curiosi e sociologi un libro fondamentale, arricchito da (ahimè poche) foto, che non riescono a tenere il passo con la narrazione. Immagini non troppo assestate, in un bianco e nero che però appare buona soluzione cromatica in sintonia con il genere.
Un libro essenziale per chi è stato punk un paio di lustri orsono, ma soprattutto per tutti coloro che, ragazzini e non, credono che il punk sia solo punk..a meno che non siate felici di non sapere che le sfumature sono il sale della musica.