De Gregori live genova 14/03/2008
Ogni volta che mi ritrovo davanti ad un palcoscenico, sempre e comunque, è per me inevitabile provare un’intensa emozione, una passionale sensazione di attesa e di positiva agitazione, che porta con se un senso di libertà e joie de vivre, piuttosto difficile da spiegare a chi non ama la musica o a coloro che la vivono passivamente.
L’emozione nell’attesa per Francesco De Gregori è per me sempre piuttosto intensa, anche se ogni volta che mi è capitato di assistere ad una sua performance, mi sono spesso ritrovato a criticare l’approccio che il cantautore romano tiene nei confronti del suo adorante pubblico. C’è infatti in me una sorta di contraddittorio amore e odio, che non scalfisce però l’adorazione musicale verso uno dei migliori poeti contemporanei.
Questa nuova tournée nei teatri italiani, nonostante le perplessità che nutro nei confronti di Francesco, come uomo da palcoscenico, sembra portare l’autore in una dimensione più adatta rispetto ai live on air o ai rumoreggianti palasport. Forse perché in una cornice di questo tipo, De Gregori ritrova una folla silente ed ascoltante a cui anela ogni volta, o forse a causa della presunta contaminazione borghese, che nel 1976 collettivi studenteschi additarono polemicamente all’artista.
Senza ombra di dubbio, dopo aver assistito al live, organizzato come sempre da Vincenzo Spera e dalla sua Grandi Eventi, sembra essersi palesata la suddetta teoria, mostrando un De Gregori maggiormente a suo agio in un teatro, che lo stesso cantante considera tra i più belli al mondo.
Il concerto ha inizio attorno alle 21.20 e sin da subito si percepisce un’aria differente rispetto alle ultime esibizioni. “Questa sera mi sembra in forma!”, commenta una ragazza seduta dietro di me, e la percezione non è certo erronea, visto il magnifico trittico iniziale con il quale l’autore battezza la data genovese. “Titanic – I muscoli del capitano – L’abbigliamneto di un fuochista”, vengono proposte senza soluzione di continuità, estratte dal fortunato album dell’ormai lontano 1982, rinverdendo così la metafora di un umanità diretta verso la decadenza.
Il sound, illuminato da giochi di luci a tratti sin troppo invasivi, regala una mistura di folk abbigliato da jazz, evidenziando sin da subito le doti tecniche di Stefano Parenti, batterista di ottima fattura, che insieme alla magnificenza interpretativa del poliedrico pianista, risulta capace di tenere le fila di una band a tratti in difficoltà, tra piccole sbavature ed incertezze, soprattutto da parte delle due chitarre portanti.
Con la chiusura della trilogia, le dolci note del pianoforte regalano i primi sinceri brividi, infatti il pubblico rumoreggia delicatamente il proprio entusiasmo per “La leva calcistica della classe 1968”, che inevitabilmente porta alla memoria gli ultimi emozionati fotogrammi di “Marrakech Express”, di Gabriele Salvatores. Anche se l’assolo di Lucio Bardi sembra non convincere più di tanto, la canzone fatalmente porta con se una rara emozionalità, che conduce il folto pubblico ad un applauso sincero e vigoroso.
Il concerto prosegue con il convincente nuovo arrangiamento di “Battere e levare”, la poetica “Raggio di sole”, dedicata ai figli e l’inaspettata “Natale”, emozionale sonorità accompagnata dall’indeciso clapping hands del pubblico.
Non c’è tregua per le emozioni, è la volta di Generale, durante la quale mi sarei aspettato una maggior partecipazione del pubblico. Il mio stupore ha poi trovato linfa vitale nell’osservare come quasi la totalità dei presenti, muovesse le labbra per cantare in playback, senza dare fiato alla voce, quasi per non disturbare l’ intenso cantato dell’autore.
La seconda parte del concerto porta in dote “Adelante adelante”, sviluppata su sonorità che sembrano omaggiare il dolce virtuosismo di Yann Tiersen, a cui segue “Pezzi di vetro” che finalmente segna una presenza più solvibile del basso, rimasto troppo in ombra per tutta la durata del concerto, nonostante le buone potenzialità palesate anche con il contrabbasso elettrico.
Di certo poi non potevano mancare “Rimmel”, “La valigia dell’attore” e “Il bandito e il campione” scritta da Luigi Grechi, fratello di Francesco. Proprio sulle note di questa canzone incredibilmente il cantautore esce dai propri cliché, chiamando il pubblico a partecipare ad un coro. Incredibile! Tanto incredibile che gli stessi spettatori spiazzati dalla richiesta di compartecipazione, mancano l’appello, strappando così una risata ad un Francesco in buona forma nascosto dietro il suo elegante vestito.
Sono le 23.00 è tempo di Bis. De Gregori rientra accompagnato dal pianista. Si aggiusta la cravatta bordeaux e le note iniziano a vagare in un surreale e rispettoso silenzio. Un balzo nel 1983 porta a quella che per molti rimane una delle migliori composizioni dell’autore: La donna cannone. Lo spartito è letto alla perfezione, addizionato di piccole alterazioni sonore che ne diluiscono piacevolmente l’ascolto; inevitabilmente giunge puntuale “l’applauso del pubblico pagante”, che apprezza la nuova track “ Per brevità chiamato artista” e si ritrova disorientato da un manchevole finale, segnato da una trasposizione senza misure di “Buonanotte fiorellino”, disarmonica non tanto per la sua diversità dall’originale, quanto per il suo grossolano sviluppo.
Nonostante il poco felice atto finale, è innegabile come questa volta Francesco De Gregori abbia regalato buone emozioni attraverso una scaletta convincente e non abbia caricato troppo la sempre ricercata voglia di rinnovare ciò che ormai appartiene al classico.