Belvas “Roccen”, recensione
Rabbiosa, ipnotica comunicativa; così mi è apparsa la cover art e di Roccen interessante (…molto, molto interessante) debut di un trio comasco che si cela dietro al nome di Belvas. Una copertina perfettamente in linea con lo stile pittorico proposto delle tracce stesse. Infatti, il disco nel suo complesso appare disturbante e ossessivo come la bass line che apre il rock n’ blues trainante della titletrack, il miglior inizio possibile.
Il mood avvolgente e granulare sembra offrire, sin dal primo istante, una distorsione volitiva, in cui vivono i graffi della voce narrante, ideale per un itinerario sincopato. Il sound distorto al limite dello stoner, rimane all’interno di un rock vivo, che convince in questo straordinario anthem introduttivo, pronto ad evolvere e deformarsi nella parte strumentale, grazie alla sezione ritmica pronta a mostrare lo spazio per i canini, intenti ad afferrarci alla gola. Le “Ferite” inferte si osservano poi nella pacatezza espressiva di alcuni episodi, attraverso i quali risplendono armonie mai banali, che spesso evolvono all’interno della set list, esattamente come accade nei sentori anni ‘80 di A fondo Billy e i divertissement di Disco B.
Il viaggio distorsivo continua poi sui confini evocativi di La Morricone nella quale l’impulso stoner finisce per lanciare la pacatezza narrativa, per poi ripartire sulle vie dei più grezzi Malfunk, mediante itinerari sonori improntati a definire cambi direttivi, pronti a dipingere delicatamente in “bianco” la tela proposta.
Se poi con Malattia II ci ritroviamo in un territorio di Stagioni diverse (VM18), assieme alla linea di basso ci ritroviamo tra le note cadenzate di Piacere è dolore, interessante nel suo evolversi in maniera dicotomica, ponendosi tra delicatezza e ruvidità narrata.
A chiudere un interessante poligono irregolare sento, infine, di dover ancora citare il surreale e folle spartito punk di Niente dentro me e l’ipo-tribal oscuro di Pink boy, in cui spiriti orientaleggianti e visioni derivative fungono da sguardi disorientati, proprio come accade sulla partitura di Real X, ultimo atto di un album ottimo… nonostante l’eccessiva lunghezza.