Zillatron – Lord of the harvest, recensione.
“Zillatron è un’avventura dentro la parte seriosa ma molto fragile di ciò che tutti noi siamo”. Con questa frase iniziano le note nell’interno di copertina di “Lord Of The Harvest”, album figlio delle menti di due musicisti che hanno sempre fatto della follia l’ingrediente principale del loro genio: Bootsy Collins e Bill Laswell. Il primo è lo storico bassista dei Funkadelic, noto per i suoi occhiali a stella e per i suoi letali “licks” di basso funky che hanno fatto da base ai classici della P-Funk Family. Il secondo è lo sperimentatore musicale per eccellenza, il padre di svariati progetti a cavallo tra elettronica, funk, hard rock e hip-hop quali Praxis, Material e Last Exit. I due si ritrovano in Zillatron, personaggio psichedelico-spaziale incarnato da Bootsy Collins destinato a portare sulla Terra un suono cosmico che va oltre ogni genere e confine. Il team messo insieme dai due è di tutto rispetto, potendo contare, oltre che sul basso di Collins e sulla rumoristica di Laswell, anche sulla chitarra del virtuoso Buckethead (recentemente parte dell’ultima versione dei Guns’n’Roses), sulle tastiere del compagno di avventure funkadeliche Bernie Worrell e sulla partecipazione vocale di Umar Bin Hassan (membro originale dei Last Poets) e di Grandmaster Melle Mel, gloria assoluta della vecchia scuola Hip-Hop.
Detto così sembra un melting pot degno al massimo di creare un guazzabuglio di sonorità che poco vanno d’accordo fra loro. Nella realtà invece “Lord Of The Harvest” è un lavoro senza tempo capace di far esprimere come un tutt’uno le varie filosofie musicali che vi partecipano. La guida di Bill Laswell si sente soprattutto nella follia di fondo rappresentata da cambi repentini di ritmo e da voci campionate che a tratti si inseriscono nel tutto come a voler dare una dimensione aliena. Ma musicalmente parlando quelli che la fanno da padrone sono assolutamente Bootsy col suo basso e i suoi giri sporchi e Buckethead con i suoi inconfondiibili riff di chitarra. Il risultato è sicuramente molto incline al funk ma con una vena rock evidente, accompagnata tra l’altro da una nota elettronica/ambient che contraddistingue l’atmosfera.
Apertura robotica quasi alla Kraftwerk nell’introduzione di “C.B.I. Files” nella quale inizialmente si respira un’aria da videogioco anni 80 con voci che minacciano di distruzioni ultraterrene a fare da apripista all’irruzione lenta del basso di Bootsy che a sua volta lascia spazio alla chitarra di Buckethead insieme alla quale partono i vocals che paiono direttamente estratti da un disco dei Parliament. Un pezzo che scuote facilmente, che al suo apice sembra volare alto e lascia lontane le sue velleità spaziali per trasformarsi quasi definitivamente in un martello da dancefloor anni 70. Ma la vena aliena non poteva certamente rimanere un solo accenno, ed ecco che “Fuzz Face” parte preannunciando la fine del mondo e poi trova il paradosso perfetto nel mix di funk ed elettronica dal tono molto festaiolo. Un clima che però è brutalmente interrotto dalle virate rock di Buckethead il quale si trova perfettamente a suo agio nell’intesa con Bootsy Collins e senz snaturare il suo stile ricorda i migliori episodi di Maggot Brain. Nel frattempo il delirio di voci marziane continua in sottofondo confezionando un altro viaggio interstellare che farebbe felici tutti gli appassionati di fantascienza. In “Exterminate” invece si va direttamente al sodo, con violento assolo di Buckethead oltre i confini dell’heavy metal, fino a che non si inseriscono dialoghi e suoni dell’altro mondo che non frenano però l’attacco del chitarrista il quale sfonda il muro del suono nei minuti di questo pezzo esaltante. L’invasione aliena è completa in “Smell The Secrets”, musicalmente una perfetta sintesi di avanguardie cosmiche, capace di equilibrare l’elettronica di matrice tedesca con il free funk ed il rock e tracce di old school Hip-Hop. Quello che più sorprende è la piacevolezza dell’ascolto di un pezzo in realtà tutt’altro che facile. “Count Zero” è il brano che più degli altri sembra voler sfidare il tempo, anticipando di un decennio il trip-hop e viaggiando a gonfie vele su una batteria elettronica monotona ed imperterrita sulla quale si appoggiano candidamente voci, rumori, suoni. Senza dubbio il pezzo dove la presenza di Bill Laswell è più evidente. Il ritmo rallenta e si entra in territorio “blacksabbathiano” in “Bootsy and the Beast” nella quale gli assoli sempre più energici di Buckethead vengono intervallati da frasi quali “your American dream is a nightmare” e da risate sadiche. Bootsy Collins si prende la scena nella sua “No Fly Zone”, brano piuttosto cerebrale nel quale il funk incrocia un mondo di suoni e rimane comunque se stesso, accelerando ad alte velocità verso lo spazio profondo. Un pezzo che troverebbe tranquillamente spazio nelle discografie di parecchi appassionati, non solo di funk ma anche di rock e persino techno. Quando si è ormai trasportati in altri pianeti, si viene presi in contropiede dall’ultimo brano, l’insospettabile ballad “The Passion Continues”, uno di quei momenti in cui Bootsy Collins sembra tirar fuori il suo lato più soul riuscendo alla perfezione nell’intento di creare un’atmosfera ovattata tutta inconfondibilmente sua.
Fuori da ogni logica umana e da ogni possibile etichetta, “Lord Of The Harvest” è uno di quei dischi che hanno la capacità di riconciliare con la musica, non solo per la sua infinità originalità e per la sua dilagante pazzia ma soprattutto perchè riesce a trasmettere la voglia e la passione di un gruppo di musicisti di grande spessore che hanno la loro forza più grande nel non prendersi troppo sul serio. Un’ora di divertimento garantito, ovviamente dedicato a coloro che sono parecchio stufi di sonorità banalmente terrestri.