Yellowjachets – Lifecycle, recensione.
Tornano i grandissimi Yellowjackets.
Quel grandissimi, messo lì come tante volte si mette il vocabolo, usato troppo spesso come fosse maionese per dozzinali panini da tenere assieme per forza, è la qualifica che il recensore sottoscritto intende riservare al gruppo statunitense per via del fatto che una carriera partita coi primi anni ’80 e portata avanti fin qui ai livelli che lo caratterizzano è un dato rilevante, oggettivamente, anche grazie alla capacità che hanno avuto di rinnovarsi, di dare segnali di evoluzione man mano che gli anni passavano, di trasformare la consueta sequenza di lavori in un percorso, che li ha portati dall’essere una delle migliori fusion band al definire uno stile praticamente proprietario di jazz elettroacustico raffinatissimo e distintivo.
Lifecycle è l’ultimo di una lunga serie di lavori, dicevamo, e stavolta c’è un punto per il quale si torna al via, cioè l’aggiunta di un chitarrista. Se all’inizio si trattava di colui che sarebbe poi diventato un nome di punta del rock-blues moderno, Robben Ford, ora al gruppo si aggiunge una voera icona (che fa rima con grandissimi) del jazz-rock, Mike Stern. Il nuovo progetto degli Yellowjackets diviene immediatamente, come si può ben immaginare, un lavoro in cui la caratterizzazione conferita ai brani da Stern si fa potente, presente, precisa, sebbene ovviamente non si sostituisca in alcun modo a quel sound che ormai rappresenta ben più di un marchi odi fabbrica.
I brani proposti non aggiungono per la verità praticamente nulla di nuovo a chi conosca il gruppo, e semmai ne consolidano statura e valore (ove ce ne fosse stato ancora bisogno), quindi non aspettatevi nulla che dal grande quartetto non abbiate mai sentito in passato. Non è mutata, però, nemmeno la capacità di mettere in piedi (e far stare su senza alcuno sforzo apparente) una micidiale, efficacissima sequenza di esempi di scuola su come realizzare musica fusion, senza fare né i radiofonici, né gli ammiccanti, né i mielosi, né i supertecnici. Ferrante, Mintzer, Haslip e Baylor sono una macchina che gira a livelli altissimi senza dar praticamente mai la sensazione di produrre uno sforzo, una fatica, un segno d’alterazione anche lieve nella loro dote di tenere in equilibrio ossatura e decori di un brano.
Personalmente ho trovato un filino più involuti i temi, con qualche difficoltà in più a trovare la consueta cantabilità, ma questo da un lato può starci tranquillamente e dall’altro non è detto neanche che debba essere uno scopo per un gruppo i cui membri sanno comporre pressoché qualunque miscela di armonie in ambito fusion e jazz. Posso al più dire che, Stern a parte, è possibile che questo lavoro non trovi, rispetto ai precedenti, un motivo per poter essere distinto con decisione tra tutti. Lo stesso Stern, che pure è più in forrma rispetto ad altre recenti apparizioni, talvolta appare un po’ uguale a sé stesso, anche se d’altro canto nei momenti più lenti e in quelli coi temi all’unisono con Mintzer (il cuore ne approfitta per ricordare Bob Berg) è sempre un riferimento.
Detta in altre parole se prima gli Yellowjackets vi piacevano o non vi piacevano è ben probabile che non sarà questo Lifecycle a farvi cambiare idee. Semmai vi confermerà, o insegnerà, che siamo ai vertici del jazz elettroacustico moderno.