Worstenemy “Revelation”, recensione
Esiste da sempre uno stereotipo sociale che inquina la nostra percezione. Quante volte, soprattutto in ambito indie, ho sentito frasi del tipo: “Ah! Se fossero canadesi…farebbero il botto!”. Purtroppo il mal celato costume italiano sembra ancora affetto da un esterofilia liberatoria, che culturalmente ha troppo spesso posto su due piani differenti i prodotti nostrani, frequentemente accantonati per dare maggior risalto al mondo d’oltre confine. Pur valutando l’assoluta refrattarietà di un utopica e inutile autarchia, talvolta lo stereotipo nasce da una verità assolutamente non confermata da questa Rivelazione raccontata dai Worstenemy.
La band, classico power trio di stampo death, regala all’ascolto un oscuro e ciclotimico old school, legato in maniera manifesta ai mostri sacri della Florida anni ’90… ma (Attenzione!Attenzione!) arrivano da Oristano. Dieci tracce che rinnovano le ceneri del proprio passato, attraverso corposi riff analizzati emotivamente da una struttura espressiva che sembra privarsi di vani artifici stilistici.
Dietro al monicker, il cui logo rimanda la mente ai Vomitory, si celano Mario Pulisci, Andrea Fodde ed Elena Zoccheddu, combo d’esperienza in grado di restituire agli amanti del genere passaggi ed armonizzazioni riuscite, proprio come dimostra Karnak, brano di rimando alla prima vita della band. La lirica, facendo riferimento agli omonimi templi egizi, si mostra come uno dei migliori lati oscuri del songwrinting. Infatti proprio quell’angosciante oscurità, vitale perno espositivo della traccia, viene ben metaforizzato da un arrangiamento intrigante, che definisce corposi rallentamenti nella folle e visionaria Arms of Kali, in cui la voce granulosa del frontman si appoggia alle strutture imprò del drum set, tra riff diluiti e schizzanti picchi esecutivi. La partitura, ancorata al death più estremo, offre sviluppi chitarristici vicini a richiami in Dimension hatross style, ben definiti nell’espressione ansiolitica e claustrofobica della sei corde.
Se con con l’agonia ed il dolore di Strange life emergono riff slayeriani, è con l’anticlericalismo di The Redeemer Is a Liar che la band definisce uno dei migliori riff dell’intero full lenght, al pari delle isteriche ridefinizioni ondulanti della titletrack. Il pattern minimale si fa a tratti criptorumoristico, in un’abile approccio atto a definire il sentiero blasting di V.I.T.R.I.O.L., in cui il risveglio narrato riporta a galla reminiscenze old school, ben affinate da una putrescente vocalità, che in passaggi come Black Storm , si avvicina al growling di Chris Barnes. Proprio il desertico ed oscuro tracciato narrativo della Nera tempesta, ci invita all’interno di piccoli cambi direzionali dominati da una celata linea di basso, fulcro concreto di un disco crudo e visionario quanto la sua cover art.