White Stripes – Icky Thump
La svolta pianistica di “Get Behind Me, Satan” è stata molto utile ad eludere il minaccioso incedere della definizione di “fenomeno commerciale” involontariamente richiamato da “Elephant” del 2003. Dal punto di vista musicale però essa non ha permesso ai White Stripes di esprimersi al meglio e di raggiungere il solito livello qualitativo. Cosa che del resto devono aver notato anche loro, come conferma il riff iniziale di “Icky Thump”, brano d’apertura dell’omonimo nuovo album. Non c’è dubbio: i White Stripes che conoscevamo sono di nuovo qui. Jack è tornato alla sua chitarra dal suono sporco, alle melodie figlie dei Led Zeppelin e ad una voce che ha rubato molto a Plant. Il tutto è accompagnato da incisi brevi ed energici che sono ormai marchio di fabbrica del duo di Detroit.
“You Don’t Know What Love Is” prosegue il viaggio a ritroso nel tempo facendoci immergere appieno nell’atmosfera degli anni ’70 ed anche il terzo brano, “300 MPH Torrential Blues” non è da meno, con un piccolo riflesso di Bob Dylan nel titolo della canzone ma anche nella melodia cantata da Jack. La chitarra delicata e pulita che apre il brano è comunque in contrasto con le sequenze più sporche e distorte che sostituiscono il ritornello perché, dopotutto, si tratta sempre dei White Stripes.
Ci ritroviamo ora a compiere un altro salto, non più nel tempo, ma nello spazio: eccoci in Spagna, guidati dai fiati di “Conquest”, cover già interpretata dalla cantante country Patty Page. Sia la voce sia gli strumenti si sono chiaramente ambientati in fretta e si rincorrono nell’intermezzo con una serie di call and response: prima tra voce e trombe, poi tra chitarra e trombe. Il complesso può apparire un po’ troppo epico e teatrale quando si scopre che la conquista alla quale il brano si riferisce è quella di una donna (che però presto da preda diventa cacciatrice) ma non bisogna stupirsi: i White Stripes non temono gli eccessi, questo è certo.
“Bone Broke” ci riporta in territorio conosciuto, con ammiccamenti ai Led Zeppelin e liriche urlate, ma per poco: tocca all’Irlanda ora, evocata tramite mandolini e cornamuse. Di nuovo, melodie ed inflessioni della voce si plasmano su misura e guidano verso una coda allucinata, come forse risulterebbe Baba O’ Riley interpretata dalla ragazzina proprietaria della voce di “Stupid Mop” dei Pearl Jam.
Dopo “Prickly Thorn, But Sweetly Worn”, “Little Cream Soda” ci riconduce a casa White, per la precisione all’esordio della band, attraverso il suono cupo (il più sporco e ruvido di quest’album), i riff zeppeliniani, la voce più vicina al recitato che al cantato, la semplicità della batteria e le distorsioni.
Confermano questo ritorno “Rag And Bone”,con un allucinato dialogo tra Jack e Meg sulla base dei tanto cari riff seventies e con qualche sguardo al rock ‘n roll, e “I’m Slowly Turning Into You”, con tanto di organo alla Deep Purple.
Non poteva certo mancare la classica ballata: La dolcezza di “A Martyr For My Love For You” spicca ancora di più dopo tutto questo ruvido rock. “Catch Hell Blues” torna sul solito suono sporco ma la voce resta controllata e così anche il discorso delineato in modo essenziale dalla chitarra, che si ritaglia qui il suo spazio senza perdersi in virtuosismi fuori luogo. “Effect and Cause” è probabilmente il pezzo meno significativo dell’album, o forse semplicemente ci si aspetta di più da un brano di chiusura. In ogni caso, il viaggio è finito per ora.