Where the spirt meets the bone – Lucinda Williams – recensione cd
Diciamoci le verità: la vita è diventata frenetica un po’ per tutti e non abbiamo quasi più il tempo di ascoltare la musica con l’attenzione che merita. Bisogna ritagliarsi dei momenti, qua e là, e spesso la sentiamo distrattamente. Quando ci troviamo davanti ad un disco doppio, poi, il primo pensiero che ci viene in mente è: “non ce la posso proprio fare”. L’esperienza ci dice anche, tra l’altro, che solitamente gli album doppi sono pieni di “filler”, pieni di pezzi buttati là solo per riempire e non di certo per emozionare.
Questa introduzione al solo scopo di rasserenare chiunque fosse intenzionato a dare una chance a questo “Where the heart meets the bone” di Lucinda Williams – una delle voci più interessanti della musica americana contemporanea – visto che si tratta del suo disco più bello dai tempi del suo capolavoro assoluto: “Car wheels on a gravel road”, del 1998. L’affermazione ha un peso specifico ancora più forte se si pensa che, in questo lungo lasso di tempo, l’artista della Louisiana di album belli ne ha sfornati più di uno (“Essence”, “World without tears” e “West”, giusto per citarne alcuni”). Stupisce veramente, quindi, il livello di “qualità”, associato ad una “quantità” (di ben 20 pezzi) apparentemente fuori da ogni logica commerciale.
I brividi cominciano sin dalla morbida “Compassion” che apre il primo cd con il suo mood pacato e l’arrangiamento scarna, visto che solo una chitarra acustica accompagna l’ormai inconfondibile voce rauca di Lucinda. Sembra quasi un intro per lanciare la seguente “Protection”, molto più decisa ed elettrica, che fa capire subito di che livello saranno i pezzi che di lì in poi ti accompagneranno per la successiva ora e mezza. E così arrivano subito le canzoni più belle a stenderti: “Burning bridges” che tocca le corde più profonde del cuore con le sue melodie e il suo sound curato, fatto di non si sa quante chitarre dal piglio rock (Doug Pettibone, Stuart Mathis, Greg Leisz, e perfino Bill Frisell), nonché la cullante “East side of town”. Qua e là Williams getta semi di blues, che resta uno dei suoi generi preferiti, raccogliendo frutti gustosi come la ruvida “West Memphis” (con l’armonica di Tony Joe White), ma è soprattutto quando rallenta come nella piovosa “It’s gonna rain” che le emozioni scorrono come pioggia, anche grazie alla splendida voce del grande Jakob Dylan. E siamo solo alla fine del primo disco.
Il secondo si apre con un’altra perla “Somethin wicked this way come” dove la cantautrice della Luisiana, usa la sua voce strascicata e la musica ipnotica (guidata dal sopra citato produttore Greg Leisz) come fossero parti di un mantra che ti segna la pelle come un tatuaggio indelebile.
La ballata “When I look at the world” suona quasi radiofonica col suo mood gentile e morbido mentre il midtempo splendido di “Walk on” è così accattivante che quasi ci si immagina la gente pronta a ballarla, spensierata, in qualche locale fumoso di New Orleans. Ecco questo è il pregio più grande di questo album: teletrasportare l’ascoltatore dall’altra parte dell’Atlantico e collocarlo in luoghi dove può respirare un aria intrisa di blues, soul e rock suddista. Allo scopo risultano perfetti anche brani come “Everything but the truth”, una mega jam session con un altro vortice di chitarre che sfocia in un mega assolo finale da ricordare, ma anche il country tradizionalista, con tanto di pedal steel guitar, di “This old heartache”.
Down where the spirit meets the bone chiude con una cover di “Magnolia” già pubblicata, in versione ristretta, nell’album tributo a JJ Cale, organizzato da Eric Clapton. Qui è presentata in abito lungo (circa 9 minuti) ed elegante, come sorta di premio per chi ha avuto la pazienza di arrivare fino in fondo. Una cosa è certa: non solo non si sarà annoiato neanche un secondo, ma gli verrà presto la voglia di ripartire per il viaggio.