Welcome to the woods
I nomi dei gruppi rock hanno spesso origini strampalate, quello dei “Caravan Perduti” è nome ironico: lo hanno scelto dopo essersi visti rubare per due volte il veicolo che la band usa per muoversi per l’America con la propria strumentazione da concerto. Sì, perché a differenza della maggior parte degli “artisti” di oggi Stokes Nielson (chitarra solista e voce) e soci prima di arrivare in sala d’incisione avevano già acquisito mestiere facendo anni di gavetta on the road: ecco perché Welcome to the woods è un album che al primo ascolto sorprende, perché a suonare c’è un gruppo con un’identità definita, canzoni e musica che rivelano influenze certo, ma soprattutto originalità e sostanza.
Stokes Nielson racconta che una volta il grande Willie Nelson gli ha detto che il musicista è uno che costruisce case nei boschi, quando le case sono belle la gente trova il sentiero per raggiungerle: andiamo allora a vedere come suona Welcome to the woods (benvenuti nel bosco).
Il disco inizia con chitarra e piano che aprono la strada alla voce di Stokes: Longfall racconta la storia di un ragazzo di provincia che trasferitosi sulla West Coast insieme alla sua ragazza in cerca di fortuna nello show business non ne accetta le regole e i prezzi da pagare, perde quindi la ragazza che viceversa accetta di cambiare nome e faccia pur di sfondare; egli resta arenato nella falsità di questo posto dove “there’s no cold and no one gets old”; tutto cambia quando “I saw a black haired girl on the concrete path”, una con i piedi per terra, una che – peccato capitale nel bel mondo americano – “fired up a Winston and gave it to me”. Siamo nella pura e classica scrittura di canzoni di rock classico, la canzone film riveduta e corretta per il secolo XXI: la rivoluzione è nel basso profilo, nella normalità, anche di una sigaretta. Longfall è una perfetta canzone d’apertura perché chiarisce lo scopo e il tema dell’album tanto per le storie che per la musica. Se per i testi vaghiamo lungo sentieri consolidati, altrettanto si può dire per la musica: la sezione ritmica fornisce sostanza e in molti brani (es. Averly Jane, Atlanta) si fa da parte per lasciare spazio all’intimità di voce e chitarra, salvo rientrare prepotentemente a sostenere in crescendo il momento topico della canzone. Una cosa che colpisce essendo una band agli esordi è come gli arrangiamenti aderiscano a pennello ai testi: continui cambi di ritmo e di intensità che enfatizzano il cantato di Stokes Nielson.
Nel corso delle 14 tracce che compongono l’album troviamo spesso ospiti ad arricchire il tappeto sonoro dei Lost Trailers (oltre al già citato leader, suo fratello Andrew al basso, Jeff Potter a battere le pelli, Manny Medina alla chitarra ritmica e Ryder Lee al piano e all’organo Hammond: tutti danno energia ed emozione sostenendo con cori e armonie la voce di Stokes). Da citare il contributo della cantante Stacey Williams, straordinaria nel fare di Battery un brano di notevole spessore, chi ama il rock non può che ricevere sana adrenalina ascoltando un pezzo del genere. Il grosso dei brani dura intorno ai 3 minuti: intro, tema, ritornello, assolo di chitarra, ripresa, variazione di ritmo e gran finale; qualcuno ascoltandoli dirà che non hanno inventato niente, ma nessuno potrà negare che l’abbecedario del rock lo conoscano a menadito!!!
Il brano di chiusura – Fire on the Pontchartrain – è un’ autentica sorpresa dopo 50 minuti di musica: un’epopea di quasi sei minuti per una storia di amore tradito, di vendetta e di amore rinnovato ambientata nell’atmosfera fascinosa e maledetta della Louisiana del Lago Pontchartrain; la voce di Stokes accompagnata solo dalla chitarra presenta la storia, poi pian piano entrano l’Hammond e tutto il resto per accompagnare il leader – con musica e cori – al primo (falso) finale, quando poi piano e chitarra sembrano preparare la fine del pezzo ecco che un’esplosione di batteria e la chitarra riaprono la storia e la canzone verso un finale da brividi alla schiena. Se fa questo effetto in studio, immagino che Fire on the Pontchartrain dal vivo debba essere una bomba rock.
In conclusione direi che The Lost Trailers rinnovano con vigore e idee proprie la tradizione – dagli Allman a Springsteen – del grande rock americano anni ’70, fuori moda? peggio per lei!