Wallace Records:Uscite Settembre/Ottobre 2009
I CAMILLAs
“Le politiche del prato”
Una cover art che sembra rubata alla tristezza autunnale degli anni settanta, potrebbe sviare chi non conosce ancora i Camillas, nostrani compositori di imprudenza musicale. Infatti il disco promosso da Wallace Records / Tafuzzy Records / Marinaio Gaio / Dischi di plastica, raccoglie in sé un infinita serie di umori, che rendono questo disco uno dei migliori di questa stagione alternativa.
L’album si apre con “Discomacchina”,un electro sound retrò, figlio degli anni ottanta, mescolato ad ambiente proto dardeggiante, speso per un viaggio industrial-minimal, che non trascura una facilità di ascolto, risultante non così ardua come si potrebbe pensare, nonostante la ridondanza esecutiva. Venature pop si ritrovano nell’eclettica semplicità di “La canzone del pane”, in cui appare la voce narrante che non sorprende ma risulta funzionale alla narrazione, omaggio (in)volonatrio a Rino Gaetano. Il brano costruito su uno scheletrico riff, e a tratti invaso da un altronica, forse eccessiva per un anticlimax dal sapore sospeso.
Tra i migliori brani appare senza dubbio la folgorante “Agitazione”, che ha la stessa forza espositiva del Freak Antoni Punk di “Inascoltabile” e “Monotono”, attraverso sforzi recitativo-lirici che donano alla breve traccia potenza espressiva e concretezza corporale. Il disco viaggia attraverso canali paralleli senza annoiare mai, grazie a tracce come l’onomatopeica ”Il gioco della palla”, in cui il chorus appare citazionistica verso il rock dei Tarm, oppure la destabilizzante aura acustica di “Maya”, folle e psicotica nella sua quiete serena, che ben si sposa con l’alternative di “PopNatale”, una perla di genialità, assestata tra l’ironia casereccia di Carena e l’ostruzionismo sarcastico di Bugo, aggiunta di un’inusuale genialità consumistica.
Il disco ci regala poi il sapore alpino di “Settembre”, su cui appare impossibile non sorridere, per la curiosa storia narrata, per le modalità con cui viene raccontata e per una musicalità illogica. Un brano che racchiude la potenza d’ingegno del combo pescarese, che non si risparmia con “Dimmi”, scomposta e post adolescenziale composizione, tra natura e ricerca della stralunata arte compositiva.
Zagor e Ruben riescono, dunque, a definire senza troppe difficoltà un album unico, curioso e probabilmente definibile dentro al categoria “bello ed interessante”, offrendo quindici tracce che appaiono come una sorta di labirintico “circuito affascinate”, che di certo rallegra l’anima, proprio come Moltheni affermava nella sua natura in Replay.
MIR
Mir
Cambiando registro, arriviamo nelle viscere della Wallace records, questa volta in stretta collaborazione con Savane Land records e Tree in a field records, per parlare dell’omonimo “MIR”, ensamble svizzero che ha dato alla luce un prodotto nato senza l’utilizzo di overdubs, grazie allo spririto free di Daniel Buess, batterista e percussionista, che assieme a Marco Papiro e Michael Zaugg compone questo rumoroso trio strumentale.
L’incipit ci fa traslocare la mente in un mondo parallelo, non così felice e sereno come ci si potrebbe aspettare. La breve titletrack ha, infatti, l’obiettivo di introdurci nel mondo tecnocratico della band, attraverso un portale musicale atto a fagocitare l’ascoltatore, ora pronto al soft industrial noise di “Animal instict”, cruento ma pensoso capitolo dell’astrattismo sonoro, in cui l’overture si sposta a tratti verso un space futuristico, degno di quella fantascienza d’autore dei primi anni 90. Il gruppo di Basilea, giunto al terzo full lenght, dipana idee compositive attraverso sonorità cupe e cavernose, come accade nella problematica “Terminal reverb”, caparbia anche nei suoi pochi silenzi. Emergono poi accenni di tribal dance con “Jimbo”, che ha forse il limite di smarrirsi sulla lunga gittata, finendo per risultare diluita e poco incisiva rispetto ad altre tracce, nonostante i caratteristici e funzionali oscillatori di Michael Zaugg, anima nascosta dei “MIR”.
Non mancano né spire di noise sperimentale come in“Organ Donor”, da cui emergono sensazioni demodè, né sviluppi avantguarde industriale, come accade in “No parts inside” orrorifico capitolo del romanzo raccontato attraverso immagini oniriche, più vicine all’incubo che al sogno.
Uncode duello
“Tre”
“Tre” come tre gli album prodotti dagli Uncode Duello, che dopo “Ex aequo” arrivano sui lo-fi dei fan con un elegante confezione cartonata, in cui la scarna ma funzionale grafica, ne definisce sin da subito la graffiante e tagliente linearità compositiva. L’album offre ciò che ci si aspetta, senza sorprendere, ma confermandosi come una felice realtà musicale, fatta di suoni e strumentazioni diversificate e non propriamente legate all’easy listening, pur mantenendo un armonia e una timbrica piacevole ad orecchie preparate al peggio.
Ne è di esempio la traccia A2 “Artaudelettrico” in cui sampler francofoni si mescolano a un sound seventies di buon impatto, senza tradire l’ecletticità intrinseca al combo Cantù-Iriodo, nel tentativo di svilire la composizione artistica, sviluppata attorno ad uno spaccato di altronica.
Maggiormente tirato sembra essere A3 “Sono la nostra storia”, ciclica e ipnotica armonia orientaleggiante, approfondita attraverso curiosi e a-ritimici cambi di direzione improvvisa, che ci disorientano “Come in Strato di nebbia”, cuneiforme composizione manifatturiera, viva e vitale, nutrita di quelle centinaia di stimolazioni che la vita moderna offre ai nostri neuroni affaticati. Se l’opera A ci fonde e confonde, la suite B, raccolta in un unica traccia (“Train is the place”), muove l’attenzione verso sonorità più posate e camaleontiche, che scaturiscono come di consueto dalle sapienti e poliedriche mani di Xabier, deus ex machina dell’arte sonora. Il B side nasconde un ruolo defatigante rispetto a quello speculare, conseguendo passaggi oscuri e routinari, gradevoli nella loro parafrasi della realtà contemporanea.
Un disco che, per certi versi, fa fede al nome della band, attraverso suoni non classificabili con facilità; una sorta di racconto post moderno incentrato su aspetti particolari del nostro vissuto, senza utilizzare dispersione artistica né facili controlli.