Vic Chesnutt – At the cut, recensione
Un album disperato, di un artista la cui vita si è conclusa disperatamente.
Sicuramente uno fra i migliori album dell’anno, l’ultimo e definitivo, purtroppo, di questo cantante e chitarrista statunitense nato nel 1964 e morto suicida nella giornata del 25 Dicembre 2009.
La vita di Chesnutt è stata segnata dall’alcool, causa dell’incidente d’auto che lo ha reso paraplegico non ancora ventenne, e dalla droga, oltre che da vari tentativi di suicidio, e tutto questo vissuto traspare chiaro e forte nei testi intrisi di poesia e nella musica di Vic.
“Coward”, brano orchestrale con cui si apre l’album, potrebbe essere la marcia funebre scritta dall’artista per sé stesso, ed è uno dei pochi brani dell’album in cui le ballate lasciano lo spazio a momenti energici e nervosi, mentre la successiva “When the bottom fell out”, voce e chitarra acustica che disegnano le atmosfere tipiche di questo lavoro, comincia lentamente a trascinarci nel mondo di Chesnutt.
“Chinaberry tree” è caratterizzata da suoni di chitarra elettrica, ed è impossibile a questo punto non continuare l’ascolto dell’album fino alla fine, catturati dalla voce di Vic, che canta immerso in un’atmosfera straziante in cui tutto il mondo sembra sfasciarsi, lentamente ed inesorabilmente.
Lo strazio dell’anima raggiunge i massimi livelli in “Chain”, intarsiata di pianoforte e chitarra, e nella seguente “We howered with short wings”, caratterizzata da atmosfere jazzate dalle quali da un momento all’altro sembra debba spuntare un assolo di tromba di Chet Baker, richiamato dal cantato in falsetto di Chesnutt.
“Philip Guston” carica l’aria di energia lancinante e scuote l’ascoltatore, con la batteria in evidenza come mai avviene negli altri brani dell’album, mentre “Concord country jubilee” lo fa ripiombare in uno stato di dolcissima e dilaniante tristezza.
La successiva “Flirted with you all my life”, caratterizzata dal contrabbasso, dal charleston e da un testo di straordinaria bellezza, in cui l’artista racconta di come nella sua esistenza abbia continuamente flirtato con la morte (“Ovunque io andassi tu eri con me, ho flirtato con te per tutta la vita, ti ho persino baciata un paio di volte, giuro che è stato piacevole, ma evidentemente non ero ancora pronto”), e la seguente “It is what it is”, che si conclude in crescendo, continuano a tenerci inchiodati nell’ascolto, senza farci realizzare che oramai non resta che un solo brano, “Granny”, in cui Vic imbraccia la chitarra e ci saluta, con la sua voce ruvida, per l’ultima volta.
Un album bellissimo, sofferto, emozionante, da sconsigliare vivamente a coloro che soffrono di depressione, da acquistare immediatamente se amate la musica.
Un album da conservare accanto ad uno dei lavori precedenti di Chesnutt, “North star deserter”, perché resterà per sempre fra i nostri preferiti.
Un autentico capolavoro.