Verdena – Requiem
Bottiglia di birra in mano, culo appoggiato sul mio morbido divano, orecchie tese alle casse del mio stereo ed un pungente odore di cipolla che penetra le mie narici. I miei occhi sono sicuramente puntati al pavimento e – ci giurerei – una bavetta biancastra mi scende dalle labbra.
“Senti, togliamo ‘sto disco altrimenti ho capito che stasera non parliamo!”
E’ la voce della morosa che, intenta a star dietro ai fornelli, mi vede catatonico ad ascoltare. Io alzo gli occhi e li immergo nei suoi.
“E’ bellissimo…” dico io.
Mi sorride.
“Sì, è bellissimo…”
Non ho mai capito perché attorno ai Verdena ci sia da sempre un alone di antipatia strisciante. Forse perchè di rock intellettuale/intelligente l’Italia ne aveva già prodotto troppo, quando, nel 2000, uscì il loro primo acerbo disco. Già sazia di CCCP/CSI, Marlene Kuntz e Afterhours, l’italica gente cercava in più placide sponde facili approdi alla musica (come dire?) “suonata”. E quindi i Verdena risultavano prima giovani pretenziosi, per poi passare alla categoria delle promesse mancate, ed ora, che non sono più così giovani, finiscono nel cassetto dei musicisti alla Paolo Conte che vanno più all’estero che in Italia (e basta vedere la lista delle date fatte nel 2007 per rendersene conto). Ed è un’ingiustizia.
Nemmeno trentenni i tre Bergamaschi sfornano un disco meraviglioso, in cui le citazioni colte non sono affatto celate, ma anzi buttate in faccia all’ascoltatore già dai titoli dei brani (Marti in the sky, non prendere l’acme Eugenio, Angie, a voi capire cosa si citi…), in cui il rock pensato, squadrato e disegnato attorno ai soliti, canonici accordi si mescola con un estro improvvisativo ed una vena prog mica da poco, in cui si intravvedono Le Orme, Banco del Mutuo Soccorso ed E.L.P.
Ma torniamo all’inizio. Intanto che si scaldano le valvole maneggio questo che è il loro quarto lavoro. La copertina del CD è un disegno (forse) a carboncino, tetro come il titolo del lavoro, Requiem, che (non voglio crederlo!) può profetizzare un canto del cigno del terzetto o, forse, quel senso di incompletezza che si ha alla fine dell’ascolto, quando se ne vorrebbe ancora. La custodia è strana, non un digipack, non la solita custodia di plastica, il libretto con testi e crediti un unica opera pop/minimalista, acida e tesa. Il mio Denon ingoia il CD.
Marti in the sky è un semplice intro ambientale con una folla registrata. Don Calisto ci porta in una zona dove certo stoner rock ha fatto scuola, e la voce di Alberto guizza attorno a tre accordi e ad una batteria/metronomo. La semplicità prima di tutto, no? Le frequenza sono quelle più oscure della nostra anima, dove il basso distorge e non c’è spazio per i violini. Ed è con le pulsazioni aumentate che si passa subito, senza preavviso a non prendere l’acme, Eugenio, la tensione cala leggermente, ma sono sempre quelle maledette frequenze basse che ci avvolgono come una melassa amara, ed ancora quella voce lancinante, lamento e gemito e grido.
A questo punto io mi sono già perso. Angie vuole riprendere l’atmosfera dell’omonimo brano degli Stones, ma ne fermenta lo zucchero, e diventa ballata acida, a metà strada tra la psichedelia anglosassone ed il prog dei settanta di chiaro gusto italiano. A sedici anni, l’avrei studiata per rimorchiare in spiaggia a Lignano. (Credo che fosse questo il punto in cui la bavetta aveva cominciato ad apparire ai lati delle mie labbra…).
Aha è in inframmezzo di percussioni che non dice molto, ma serve probabilmente a preparare il terreno per il pezzo successivo.
In Isacco nucleare, compaiono ancora barlumi stoner, mentre in caños una vaga vena latina è suggerita dal titolo e dalle chitarre acustiche. Le atmosfere sono ancora tese ed acide, belle le armonie vocali, criptici (ma non stucchevolmente criptici) i testi.
In Il Gulliver la ballata si alterna a chitarre punk, belle le atmosfere acidule, belle le armonie, a qualcuno piace ancora giocare con accordi “strani”.
E quando sembra che tutto sia passato, Faro ci riporta in porto… sembra un giro di parole, ma realmente la piccola chitarra acustica nei quarantasei secondi di questo pezzo, serve a far scendere ancora una volta la tensione, fino alla successiva, compulsiva Muori delay.
E poi il brano che vale l’acquisto di tutto il CD, una struggente ballata splendidamente arrangiata, ampia, pensata, sentita. Trovami un modo semplice per uscirne è un pezzo che sarebbe potuto uscire dal cuore del De Andrè di Amico fragile, intimo e dolorante.
Dopo le elucubrazioni sintetiche di opanopono arriva il caos strisciante, (forse omaggio a Lovecraft?) altro pezzo che fa battere forte il cuore, davvero. Poi la batteria di was?, con altri sintetizzatori, fino alla conclusione lisergica di sotto prescrizione del dott. Huxley, ovvio omaggio ad Aldous Huxley.
Il lavoro si chiude con quella che sembra la registrazione di una processione funebre fatta andare “a rovescio”. Il contrario di un requiem?
La produzione di Angie e di trovami un modo semplice per uscirne è affidata a Mauro Pagani, che in questi due pezzi ci mette pure lo zampino con mellotron e tastiere.
Un disco bellissimo. Altre parole non mi vengono, un disco che è tanto bello che molti non lo apprezzeranno, di tale semplicità che molti non lo capiranno. Un disco che non venderà come altri gruppi italiani, forse solo perché è scuro ed oscuro, indaga nella parte più tetra e vischiosa del nostro essere, che non è per forza la peggiore. L’unico rammarico è che, ancora una volta, resterà miele tra le labbra di pochi.
Sarà nelle tue?