Uriah Heep – Salisbury
A volte capita nella vita di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Può capitare, nel mondo dello spettacolo (ma non solo nel mondo dello spettacolo: Gimondi adesso non verrebbe trattato diversamente sugli almanacchi se solo Eddie Merckx fosse nato dieci anni più tardi?), di venire parzialmente ignorati perché c’è da dividere la scena con qualche “fenomeno” che richiama di più.
Gli Uriah Heep hanno avuto, quindi, la sfortuna (come tanti gruppi loro coetanei) di avere come compagni di viaggio niente meno che i Deep Purple ed i Led Zeppelin. A questo si aggiunga un trattamento veramente incoraggiante da parte di certa stampa specializzata (“Se mai questo gruppo avrà successo, dovrò pensare al suicidio” ebbe a scrivere una giornalista sulle pagine della rivista Rolling Stone).
Che dire? Non vi stanno già simpatici? Salisbury è uscito nel 1971, anno in cui avrebbero visto la luce (ma allora piove sul bagnato!) Smoke on the water e Stairway to Heaven. Ma mettiamo da parte queste considerazioni storiche e addentriamoci nell’ascolto.
Un macigno camuffato da riff apre le danze con Bird of prey; ad un primo impatto, si sente che i suoni sono leggermente demodé, ma per fortuna non puzzano di polvere, hanno invece un aroma più adulto, un vino ben invecchiato insomma! Si nota subito la grande verve del cantante David Byron (scomparso nel 1985 a soli 38 anni) dotato di estensione vocale ragguardevole. Da notare anche il bel gioco di seconde voci che contrappuntano la voce principale.
In aperto contrasto con tale dichiarazione d’intenti la successiva The park, introdotta dall’Hammond del deus ex machina del gruppo Ken Hensley e sorretta da suggestivi arpeggi di chitarre acustiche. Byron canta in falsetto secondo una moda molto radicata dell’epoca (fanno capolino i Cugini Di Campagna di Anima mia…) ma il risultato non è pacchiano, anzi. Delizioso l’incrocio delle voci che riempiono la scena sonora dopo la seconda strofa, come pure il finale “a singhiozzo” in chiave pseudo jazz con Hensley ed il chitarrista Mick Box in bella evidenza con frasi all’unisono di pregevole fattura.
Con il pezzo successivo si cambia nuovamente umore: Time to live è rock vero, la progressione è elementare ma decisamente coinvolgente, con Box a farla da padrone. Tra l’altro, sul secondo solo si ascolta anche un fraseggio che fa uso del tapping, che anche se rudimentale e meno smaliziato di quello utilizzato del coetaneo Steve Hackett dei Genesis, si fa comunque apprezzare per l’intenzione. Il testo racconta il desiderio di tornare a vedere la luce del sole da parte di un detenuto (“dicono che ho ucciso un uomo / ma non gli ho mai detto perché / così per venti lunghi anni / potrai immaginare cosa ho passato / ho pensato a quel tizio / e a ciò che ti stava facendo”). Anche qui nel finale la voce di Byron tocca vette incredibili.
Di struggente bellezza la successiva Lady in black, dall’arrangiamento abbastanza semplice ma dal testo veramente toccante. Un soldato, solo in mezzo alla distruzione che lo circonda ma affamato di vittoria, incontra una misteriosa signora vestita di nero. “Ma lei non pensava ad una battaglia che / riduce gli uomini ad animali / così facile da iniziare / e tuttavia impossibile da terminare / poiché lei è la madre di tutti gli uomini / che mi diede consigli così saggiamente allora / io ebbi paura di camminare di nuovo da solo / e chiesi se sarebbe rimasta / oh signora, presta la tua mano / e lasciami restare qui al tuo fianco / abbi fiducia e fede nella pace, lei disse / e mi riempì il cuore di vita / non c’è forza nei numeri / non avere tale concetto sbagliato / ma quando hai bisogno di me / stai sicuro che non sarò lontano…”
La successiva High priestess (primo brano della seconda facciata dell’LP) non aggiunge niente di nuovo, a parte il sussulto che coglie l’ascontatore ingannato da un prologo tranquillo ben presto spezzato da un rock tiratissimo.
Per chiudere, Salisbury definisce il contesto temporale di un gruppo che (pure lui!) strizza l’occhio alle suites che compaiono come funghi nel mercato della musica prog degli anni 70. Anche gli Uriah Heep si cimentano nel superare il formato canzone e il brano, al di là della magniloquenza dell’arrangiamento che appesantisce un po’ troppo lo spirito schietto dell’album, riesce comunque a mantenere una sua dignità. Le sezioni del brano risultano ben amalgamate e notevole è l’impiego di un’intera sezione fiati, anche se la parte che la vede in evidenza sembra fare il verso (a mio parere, beninteso) involontariamente a Glenn Miller.
Nel cd sono presenti due bonus: uno è Simon the bullet freak, brano senza infamia e senza lode, ed una versione alternativa (ce n’era bisogno?) di High priestess, praticamente uguale alla precedente tranne che per l’intro “tranquillo”.
Comunque, al di là del viziaccio ormai conclamato dei produttori di inzeppare il minutaggio offerto dal supporto digitale con tutto quello che capita a tiro, gli Uriah Heep sono stati un gruppo archiviato un po’ troppo frettolosamente dalla storia del rock ma meritano, secondo chi scrive, di essere presi in seria considerazione, anche se con colpevole ritardo.