Unboxing Black Sabbath
Era il 1968 quando tutto ebbe inizio. Quello che sarebbe diventato il Metal, in tutte le sue derivazioni, iniziò proprio tra i fumi di una Birmingham operaia, dove una giovane band diede i battiti iniziali di un genere nuovo, germinale, diverso.
Presero il nome di Earth, ben presto cambiato Black Sabbath, monicker suggerito da Geezer Butler appassionato di magia nera e horror. Il nome, ormai iconico e leggendario, deriva proprio da un mitologico film di Mario Bava, il cui titolo originale, I tre volti della paura, nella versione anglosassone era stato sostituito proprio con Black Sabbath.
Da allora la band ha vissuto tante vite, peraltro piuttosto movimentate, portando sotto l’egida del proprio nome circa venti musicisti, raccolti attorno ad un unico perno: Tony Iommi.
I Sabbath, capaci di mutare forma più volte, celano una storia lunga e incredibile, costellata di allontanamenti, litigi, ritorni e inattese decisioni, poste all’interno di un sentiero in cui i tre vertici portanti posso essere definiti attorno a tre grandi ere: quella di Ozzy Osburne, quella di Ronnie James Dio e quella di Tony Martin.
A queste tre repubbliche, per dovere di cronaca, dovremmo aggiungere Glenn Hughes, voce di Seventh star e Ian Gillian capace di avvicinare (o quasi) due mondi divergenti all’interno di un album tutto sommato riuscito: Born Again.
Dalla discografia dei Sabbath oggi, come da dovere imposto dalla rubrica Unboxing, cercherò di estrarre solamente 10 tracce che possano spiegare ad un neofita chi siano i padrini indiscussi di Heavy Metal, Stoner e Doom.
A dare inizio al sentiero che vi propongo non può che essere l’omonima Black Sabbath, traccia oscura, nereggiante e inquieta che, metafora della cover art del disco di debutto, ci presenta la vocalità di un Ozzy maestoso e teatrale, pronto a ergersi dallo scrosciare di una funerea pioggia, per galleggiare su cambi di ritmo e narrazione orrorifiche. Insomma, un anthem di ciò che sarà il percorso della band durante il suo primo periodo.
Senza ombra di dubbio, però, ancora oggi, il brano (e l’album) che più connota la band è Paranoid, storia di un uomo affetto da psicosi persecutoria. Caratterizzata da un avvolgente ritmo in battere, la track disegna una linea spezzata e spigolosa, che traina l’impronta blues nel mondo heavy.
Tra i migliori riff della loro storia sento, poi, di dover indicare Children of the grave, naturale continuazione anti militare di War Pigs. La composizione, avvolgente e riconoscibile sin dal primo accordo, posandosi su una sezione ritmica battente e lugubre, riesce a dare spazio a passaggi chitarristici che, tra riff e guitar solo, mostrano la potenza immensa di Master of reality, terzo vertice di una trilogia iniziale che ha mostrato la luce dell’heavy doom.
Passano gli anni e la band continua a stupire anche grazie ad un’accorta capacità di sviluppare suoni sempre diversi, proprio come dimostra l’emozionale Changes, definita da un testo melanconico ed un sound soft, in cui i tasti bianco e neri si fondono ad archi e delicatezza. Una vera e propria ballad che è stata poi rivisitata nel 2003 dallo stesso Ozzy con la figlia Kelly, dando alla luce una nuova perla musicale.
Ma non perdiamo di vista il nostro focus e torniamo nel mondo dei Black Sabbath con il quinto album Sabbath bloody Sabbath, da cui, inevitabilmente emerge la titletrack, in cui Ozzy supera i suoi limiti, mostrando capacità vocali invidiabili. Il brano, connotato da due strutture armoniche avviluppate, si dice, essere stata composta all’interno del castello di Clearwell, tra oscure presenze e difficoltà compositive.
Da qui, però, si inizia ad intravedere la prima fine della band. Album come Never say Die! e soprattutto Tecnical Ecstasy non riescono a replicare gli antichi fasti e nonostante una buona uscita come Sabotage, la band non è più la stessa. Dissidi interni, di certo amplificati dalle di dipendenze di Ozzy, porteranno ad un lungo periodo di instabilità.
A sostituire il principe delle tenebre, ormai volto ad una brillante carriera da solista, viene assoldato niente meno che Ronnie James Dio. Proprio grazie all’ex Rainbow la band torna sulla cresta dell’onda con il disco di platino di Heaven and hell, strascinato da una straordinaria Neon Knight, che porta con sé un’aurea epic fantasy totalmente nuova.
Dell’era Dio sarebbero molte le composizioni citabili (The Sign of the Southern Cross, Turn up the night, Heaven and Hell), ma tra le tante ho scelto The mob rules. La track, trainante e aggressiva, allinea ad un riff potentissimo, una versione vocale di Ronnie James più iraconda dell’usuale, qui appoggiata ad un timing cavalcante, che ancora oggi porta ad un inevitabile headbanging.
Ma l’idillio tra Iommi e il nuovo front finisce dopo poco tempo, portando a sé Ian Gillian per Born Again (ancora oggi definibile come una destabilizzante decisione), creando così un sodalizio battezzato da alcuni come Black Purple. L’album dalla straordinaria coverart, non delude certo, offrendo Trashed e Zero the hero, anche se le venature più caratterizzanti escono da Disturbing the Priest, in cui gli acuti Deep Purple style si abbracciano ad andature battenti ed inquiete.
La storia prosegue con Seventh Star (definibile con difficoltà un vero e proprio album dei Black Sabbath) e con l’inizio della terza era, quella di Tony Martin, celebrata proprio in questi giorni con la riedizione di quattro album che dal 1989 al 1995 lo hanno visto al microfono. Da questo periodo, oggi di certo rivalutato, estraggo l’album Headless Cross che, al di là dell’ottima cover art, ha offerto al mercato una setlist di tutto rispetto (The gate of hell, Kill in the spirit world, Black moon).
Dall’era Martin, però, se dovessi estrarre un solo brano, la mia scelta ricadrebbe proprio sul Headless Cross, con i suoi suoni tipicamente anni ’90.
A chiudere il cerchio è, infine, il ritorno al doom di End of the Beginning, atto di apertura di 13, ultimo album della band, in cui il ritorno del figliol prodigo (Ozzy) ha dato il via alla fase conclusiva di una storia immensa. Il brano, oscuro e piacevolmente, volto verso il passato, sembra tornare agli albori, attraverso riff doomatici, che incrociano il sound degli esordi con strutture heavy che non tradiscono.