Ukelele Songs – Eddie Vedder. Recensione
Ukelele songs, sin dal titolo piuttosto esplicito, avvisa sia gli eventuali curiosi ascoltatori, sia i fan dell’artista di prepararsi, musicalmente, ad ascoltare un vero e proprio concept album.
Voglio essere ancora più chiaro: qui non troverete sostanzialmente null’altro (fatta eccezione per il violoncello di “Longing to belong”) che l’inimitabile voce da brividi di Vedder accompagnato dalle note di questa sorta di mini chitarrina acustica del cui suono, evidentemente, il frontman dei Pearl Jam è rimasto folgorato.
Di solito quando accadono cose simili penso ci sia un desiderio (questa volta assolutamente implicito) in chi scrive canzoni di far concentrare il proprio pubblico maggiormente sui testi e sulla voce, piuttosto che sullo sfondo. Dovendo fare un paragone direi che il più calzante è quello con “The ghost of Tom Joad”, del Boss, dove le storie raccontate risultavano certamente più in primo piano della scarna musica acustica, pressoché monocorde, che le incorniciava.
Tutto questo per dire che chi immagina di trovare un nuovo “Into the wild” non troverà che qualche eco, delle sue ballate (Guaranteed e Society resteranno comunque inarrivabili), essendo ben lontani dalla pietra miliare con la quale l’autore ha iniziato la carriera solista.
Ukelele songs, quindi, è un’altra cosa ma non per questo non richiede l’attenzione che si deve ai lavori degli artisti sinceri come Eddie Vedder ed in particolare lo meritano alcuni suoi pezzi sui quali cercherò di anticiparvi qualcosina.
Non può passare inosservata, ad esempio, l’intensità struggente di “Sleeping by myself”, storia di un amore di una vita che finisce e che lascia un dolore così grande da fargli malinconicamente intonare “forever be sad and lonely, forever never be the same”. Notevole.
Piena di speranza, per contrasto, la seguente “Without you” nella quale emerge il romantico cuore di Vedder quando dice alla sua amata “for every wish upon a star, that goes unanswered in the dark, there is a dream i’ve dreamt about you. Delicata.
Altrettanto dolce è il singolo “Longing to belong” (bello il gioco di parole) dove emergono tutte le paure di chi si innamora: “Love can be frightening when you fall”. Il già citato violoncello contribuisce a renderla certamente più efficace delle consorelle. Incantevole.
Baritonale l’approccio vocale di “Broken heart” nella quale spicca un’immagine che è tutto un programma: “don’t have eyes for the world outside, they’re closed and turned within, trying to find the light inside, it’s there but it’s growing dim”. Introspettiva.
Nel disco, ci sono poi alcune canzoni dei Pearl Jam (l’iniziale e uptempo “Can’t keep” da “Riot act”) o anche, concentrate per lo più verso la fine, scritte negli anni ‘20, ‘30 e ’60, fra le quali scelgo “Slepless nights”, sorta di serenata notturna a due voci (l’altra è di Glen Hansard), mentre scarto decisamente “Tonight you belong to me” (con Cat Power), che trovo un po’ banalotta.
Per concludere un consiglio: chi volesse approcciare questo disco certamente particolare, non lo ascolti tutto d’un colpo perché rischierebbe l’inevitabile effetto “omogeneizzante”, ma ne gusti al massimo tre pezzi alla volta, intramezzandoli magari con un po’ di silenzio o meglio ancora con altra musica. Sono certo che il giudizio complessivo finirà con l’essere diverso (leggasi migliore) di quello di chi invece deciderà di berlo tutto d’un sorso.