U2 – How to dismantle an atomic bomb
E’ commovente.
Bono dice che questo qui è il loro primo disco. La cosa sembra paradossale ma lo è meno di quanto si pensi. Ed è bello che lo dica. In effetti “Come smantellare una bomba atomica” suona come un disco d’esordio, anzi, come un loro nuovo disco d’esordio.
A distanza di (quanti?) 20 e più anni, con The Edge che porta bandane e cuffie sulla calvizie incipiente, gli U2 tornano a suonare come se il tempo e le sperimentazioni (disco, elettroniche) e i ritrovati amori (il blues) fossero quasi passati invano.La chitarra è ora graffiante ora cristallina,i toni sono epici, gli spazi aperti, il canto è sospirato e ispirato, il panorama è a volo d’uccello e con la macchina da presa in corsa. Undici brani (mannaggia, potevano sforzarsi di più) con “Vertigo”, il singolo catturone, a fare da apripista in un disco entusiasta manco fossero dei novellini. Ma novellini non sono e qui è tutto voluto quanto là, in “Boy” e “October”, era l’unica strada possibile perché quello era il loro unico e solo modo di comunicare.
Un album d’esordio della maturità, con le consapevolezze di chi ha passato più di due decenni indenne anzi confermandosi, nel bene e nel male, uno dei gruppi rock per definizione. Sempre pronti a tentare strade nuove, sempre pronti a rimettersi in gioco, gli U2 hanno mantenuto ancora l’entusiasmo laddove altri illustri colleghi hanno imboccato i sentieri della ripetitività o, peggio, sono diventati dei patetici parrucconi, malinconici come vecchi leoni sdentati. I quattro irlandesi invece non hanno registrato alcun marchio di fabbrica e sono ormai nella condizione di tentare qualsiasi cosa, mossi ancora dalla curiosità. L’unica dote animale che quando si affievolisce o viene a mancare è davvero il più brutto dei segnali: il principio della fine.
“How to dismantle an atomic bomb” però non può essere liquidato come il nuovo disco d’esordio degli U2, perché essere semplici non equivale essere sempliciotti. Infatti “Sometimes you can’t make it on” appartiene di diritto ai tempi di “Pride” come”Original of the species” e la arpeggiante “City of blinding lights” non paiono aver dimenticato le lezioni di Daniel Lanois e di Eno, con quegli accenni di “infinite guitar” e con l’uso del flanger che ci scorticarono a loro tempo, mentre “A man and a woman” è una ballata che potrebbe stare su “Unforgettable fire” e “Yahweh” è l’inno da cantare in coro alla fine dei concerti. Va bene l’entusiasmo (quasi) giovanile ma il nuovo U2 pare appartenere alla stagione di mezzo che, sia detto senza enfasi, forse è anche la migliore senza per questo farne né un vessillo né una croce né una formula magica.
Un disco brumoso e di squarci di luce abbagliante, a tratti nostalgico, caldo di fuochi accesi nella nebbia, di respiri forti: emozionale come la prima volta ma bello come quelle seguenti. In “Original of the species” poi, tra archi che contrappuntano, c’è quella voce lì un po’ nasale un po’ aspirata e quella chitarra là, messa a ricamarti la pelle, come se davvero il tempo non fosse mai passato. O semplicemente a rammentarci che nella bellezza e nelle emozioni non esiste, è nulla, è una categoria mentale, un artificio privo di senso, forse una pura invenzione.
Questo dovrebbero ricordare tutti quelli che inseguono la next big thing impazzendo dietro a formazioni o a cosiddetti artisti dal talento nullo e tristi come la colpevole bruttezza che esprimono male.
E, evitatemi la volgarità, non fatemi fare nomi.