U2 – All that you can’t leave behind.
Per certi artisti, alla cui musica sono legato in maniera affettiva, sono disposto a comprare a scatola chiusa praticamente tutto.
E’ il caso degli U2, un gruppo che in fin dei conti seguo dall’inizio degli anni ’80 e che mi hanno fatto compagnia per ore e ore durante la mia adolescenza. “Sunday bloody sunday” e’ una delle prime canzoni che imparai a strimpellare quando presi in mano una chitarra elettrica, riuscire a cantare “Bad” senza steccare e’ stato sempre uno dei miei sogni nel cassetto, ecc…
Cosi’, dopo la colonna sonora di The million dollar hotel e dopo aver visto il video di “Beautiful Day”, attendevo il nuovo disco con trepidazione.
Ohi ohi, che delusione….
Vi e’ mai capitato di volervi vestire in un certo modo per dare una buona impressione, salvo poi accorgersi di non saper portare quel tipo di vestiti? Ecco, mi sembra che gli U2 con questo disco si trovino nella stessa situazione, come ai tempi di Rattle and Hum.
Prima di affermare una cosa simile l’ho ascoltato parecchie volte, per essere sicuro (si tratta comunque di uno dei miei gruppi preferiti), e, ogni volta, l’ impressione negativa si e’ riconfermata.
Se Beautiful Day e’ una canzone orecchiabile e tutto sommato bellina, la successiva Stuck in a moment you can’t get out of e’ quasi imbarazzante per un gruppo come gli U2, mentre potrebbe andar benissimo, con quel misto di soul ritrito, per i loro conterranei Boyzone (mi aspetto la loro cover da un momento all’altro) e non credo di esagerare.
Ci si risolleva, sembra un gioco di parole, con Elevation (ma solo leggermente) e Walk On, per poi precipitare con le successive fino ai livelli ignominiosi di Wild honey.
Peace on earth la trovo quasi inascoltabile, mentre New York e Grace, riallacciandosi come sonorita’ al precedente disco Pop, sono piu’ gradevoli anche se poco significative.
Il tutto condito da arrangiamenti poco moderni (ma questo potrebbe non essere un male di per se’), pomposi, turbati dall’ inutile e pedissequa presenza di sottofondi tastieristici, che ricordano i peggiori Simple Minds e addirittura gli Alarm (il gruppo gallese fotocopia degli U2).
Per non parlare dei testi che sono, si, pieni di buone intenzioni (l’impegno di Bono per l’azzeramento dei debiti dei paesi del terzo mondo e’ conosciuto da tutti), ma mancano di quella scintilla in piu’ che ha sempre contraddistinto la produzione del gruppo.
No, no, cosi’ non va, non e’ questa la strada da imboccare.
Non so se lo scopo del disco fosse effettivamente quello di creare undici potenziali singoli, come dichiarato in un intervista: se questo fosse vero, l’obiettivo e’ stato forse centrato se si guarda alla commercialita’ dell’ oggetto ma clamorosamente mancato dal punto di vista della qualita’.
Devo dire che non mi meraviglierebbe affatto se questo cd vendesse molte copie: il suono degli U2 c’e’ ancora, con le chitarre improbabili di The Edge (il cui minimalismo ho sempre adorato) e la voce di Bono che nonostante gli anni passino continua ad avere un’ estnsione considerevole (anzi, direi che invecchiando migliora di “corpo” come il buon vino), ma e’ mischiato a sonorita’ artificiosamente ruffiane, cariogenamente mielose, troppo orecchiabilmente false.
Insomma, non e’ questo quello che ci si aspetta da un gruppo dello spessore degli U2.