Tomakin “Epopea di uno qualunque”, recensione
Appena scartata la busta gialla della spedizione, mi sono ritrovato di fronte alla copertina dei Tomakin, specchio di un epopea ordinaria. Il primo pensiero è andato a quelle opere filmiche realiste che parlano di noi attraverso storie semplici, talvolta drammatiche ma sempre reali. Uno sguardo ai ricordi legati alle pellicole di Ken Loach o ancor meglio del nostro Virzì, che con i suoi film è da sempre pronto a raccontare storie nascoste tra ironia ed attenzione. Proprio da quest’ultime parte il nuovo lavoro della band, promosso dalla crescente The Prisoner Label.
Le storie dell’opera seconda si svolgono ai piedi di quei palazzoni che dominano le grafica dell’inlay, dove chiunque può vivere o può aver vissuto; scelta stilistica perfetta nel suo intento di coinvolgere l’ascoltatore nelle undici microstorie racchiuse in un booklet vintage. L’album, nato tra Genova ed Alessandria, si dipana tra antieroi e vuoti sociali, da cui emergono storie di personaggi legati al nostro tempo. Esempio cardine di questa attenta ricerca dei particolari, non solo sonori ma anche e soprattutto narrativi, è l’introduttiva Avanguardisti che, con la sua ritmica elecro-pop, abbraccia sviluppi easy-indie nella sua urgenza narrativa volta a quelli della domenica che hanno le tute della dainese. Un compendio di reali stereotipi al servizio della tematica Pasilinniana della fuga, che ritorna sulla note di Squali, traccia diretta ed immediata pronta ad entrare nelle giuste armonie di stampo new wave, in cui il ruolo della sezione ritmica funge da fondamenta per una delle migliori tracce del disco.
Il viaggio nell’oggi prosegue con il impassibilità emotiva di La legge di Murphy, abile ed ironica visione ineluttabile del fato, il cui sound minimale e cripto-pop modula le note per Quasi mai delusi, la cui anima sintetica si sposa adeguatamente con il testo ermetico e frastagliato. Se poi con Rave, l’ascoltatore è destabilizzato da suoni più coraggiosi, è con Poser che il sestetto rincorre il dileggio di alcuni soggetti che popolano la nostra quotidianità della movida. L’impatto sonoro assestabile tra rock a tinte nere e strascichi indie, si conferma tra gli episodi più interessanti, grazie anche ad un curioso campo –controcampo, tra voice e back voice che porta con sé inattese spezie subsoniche.
A chiudere l’interessante full lenght sono infine l’aurea perfettibile di Flotta Interstellare e l’approccio tormentato e disturbante e della titletrack, che nel suo mescolare idee, arriva a riproporre un basso in overlay, forte e ben definito, totalmente al servizio dei cambi direzionali che si ritrovano nelle spezie di un mondo dark, di certo meno oppressivo e più vicino agli ultimi anni ’90.
Insomma… un disco di per sé interessante, nonostante un limite esecutivo troppo legato ad un unico territorio, che meriterebbe uno sguardo più ampio e differenziato, pronto a contenere le buone idee mostrate dalla band.