Three Feet High and Rising
Se si escludono il primo bacio, il grande amore e la nascita di un figlio, nella vita ci sono pochi altri momenti che rimangono impressi nella mente per sempre. Il bello è che in un modo o nell’altro, certi momenti la vita te la cambiano e le fanno prendere una direzione dalla quale diventa impossibile tornare indietro. E per quanto agli occhi di molti umani possa sembrare bizzarro, molti musicofili non esiteranno ad includere tra questi avvenimenti l’ascolto di determinati dischi, il cui effetto sull’età adolescenziale può essere decisivo quanto devastante.
Probabilmente i De La Soul non pensavano di poter rivoluzionare giovani menti quando sono andati in studio per registrare “3 Feet High And Rising”. In fondo erano solo tre giovani di Long Island con un sogno che tra gli afroamericani cominciava già a diffondersi prepontemente, quello di sfondare nel mondo dell’Hip-Hop. Ma che ci fosse qualcosa di magico dietro la loro creatività qualcuno lo aveva capito in anticipo, nello specifico quel genio di Prince Paul, dee-jay e produttore che già dai suoi esordi andava oltre i canoni di un genere musicale, buttando dentro al suo stile ironia, sarcasmo, funk e follia. Ecco nascere quindi una collaborazione che porterà i De La Soul a definire Paul il quarto membro non ufficiale del gruppo. Ed in fondo non è un concetto così lontano dalla realtà visto che gran parte della produzione ma soprattutto la supervisione generale dell’album in questione ha la firma del folletto già membro degli altrettanto seminali Stetsasonic.
“3 Feet High And Rising” si presenta spiazzante già dalla copertina, a tinte fucsia e gialle fluorescenti con i volti stralunati dei tre protagonisti a 360 gradi, corredati da simboli della pace e camicie a fiori. “Hip-Hop Hippies”, qualcuno aveva detto, etichettando frettolosamente il tutto basandosi sulle immagini e trascurando il suono (per altro provocando la reazione del gruppo che intitolò il disco successivo “De La Soul Is Dead” piazzando un vaso di fiori rotto in copertina). Quello che scorre sul vinile però è materiale che va oltre ogni etichetta. Basato su un numero di campionamenti praticamente infinito, tratti da una collezione che svaria liberamente e trasversalmente, l’album costruisce la sua freschezza su elementi classici frullati da una visione d’insieme capace di sdrammatizzare e nello stesso tempo dare credibilità a tutto ciò che viene dipinto nelle rime di Trugoy e Posdunos e dal sapiente lavoro ai giradischi di DJ Maseo. Poi ci sono le piccole perle firmate Prince Paul, scatenato nel proporre interludi da teatro dell’assurdo dove diventa funky anche una conversazione in francese presa da una cassetta in corso di lingua, scratchata e disposta sopra un loop di pianoforte.
Ovviamente molti ricordano questo disco principalmente per i due singoli che l’hanno portato al successo, lo storico “Me Myself And I” con i suoi fiati ed il funky sound a conquistare l’orecchio ed il successivo “Eye Know” laddove il fischiettio accompagna dei rap belli tirati intervallati da una melodia che entra in testa anche ai bambini , dimostrazione di come creatività ed orecchiabilità possano incontrarsi senza risultare forzati. Ma pur mantenendo sempre la loro etereità acustica, i De La Soul sono in realtà estremamente complessi in molte delle loro composizioni, non solo musicalmente ma anche con i loro testi, le cui metafore possono sfuggire se non si presta la dovuta attenzione. In “Treadwater” ad esempio, lo show business viene descritto sottoforma di racconto d’infanzia con l’utilizzo di un rap lungo e con poche interruzioni, mentre lo “storytelling”di “Ghetto Thang” sembra fondere i Public Enemy a Slick Rick. Cronache dal quartiere emergono anche in “Say No Go”, che è forse l’esempio più equilibrato dello stile a tutto tondo del trio. L’atmosfera jazz di “Plug Tunin’” con i suoi stacchetti di trombone ripetuti fino all’eccesso ed i suoi sporadici di pianoforte è talmente ben orchestrata che rischia di non far dare la giusta attenzione ai versi, semplicemente perfetti. “Buddy” è una posse-cut sui generis, in cui la collaborazione con gli ospiti (i Jungle Brothers ed un giovane Q-Tip) è totale, non solo nell’alternarsi al microfono ma anche nei controcori, nelle parti parlate, in generale sullo spirito del pezzo, il quale contiene un verso che all’epoca tracciava una linea importante tra i De La Soul e gli altri gruppi, cioè “De La Soul from the soul, black medallions, no gold!”. Tutto l’animo funk di Prince Paul viene fuori nell’acida base di “This is a Recording 4 Living In a Full Time Era”, probabilmente il pezzo più “free” dell’album (ed è tutto dire), mentre “D.A.I.S.Y. Age” è il pezzo che più degli altri fece gridare la critica all’hippie ma è in realtà uno stupendo esempio di Hip-Hop minimalista, con rime di alta tecnica su una scarna batteria per altro concepita per un pubblico “allenato” e sicuramente non per ascoltatori casuali. Altre perle come la jamesbrowniana “Freedom of Speak” , la vibrante e quasi erotica “Jenifa Taught Me” e la strampalata ma esaltante “Change In Speak” rifiniscono un album che invece di invecchiare, ringiovanisce nel tempo e proprio come i grandi classici della storia della musica, rimane un ascolto di cui non ci si può mai stancare. E nonostante questo esordio indimenticabile che andò oltre le loro stesse aspettative, i De La Soul sono riusciti a non farsi mai travolgere e a continuare a sfornare lavori di grandissima qualità, guadagnandosi “sul campo” il titolo di uno dei gruppi Hip-Hop più longevi.
Oggi come due decenni fa, allora, il vinile dalle tinte fucsia e sfumature giallo fluorescente di “3 Feet High And Rising” scorrerà sul piatto del giradischi e, come se fosse la prima volta che suona, farà sempre, inevitabilmente, nascere grandi emozioni.