The Running Man, recensione.
Ho sempre avuto una certa curiosità per quei gruppi che sono apparsi e scomparsi nel giro di un album. Scovare che fine abbiano fatto a distanza di anni, spesso scoprire carriere insospettabili svolte in ruoli di secondo piano ma fondamentali, cambiamenti di nome, di genere, di vita. E’ vero, molti di questi gruppi sono i cosiddetti “one-hit wonder” che bene si sono saputi allineare al genere musicale in voga nel loro periodo ma senza il talento necessario per crescere e dare personalità alla loro carriera. Però esistono anche casi di artisti che passano alla storia come meteore per motivi che esulano dalla loro qualità, siano esse legati a vicissitudini personali o al mondo discografico.
Negli anni della più fervida sperimentazione musicale, quelli che vanno dalla fine dei 60 fino a circa la metà dei 70, di gruppi validi messi in piedi e presto smantellati ce ne sono a sufficenza per riempire le pagine di un libro. E proprio dalla ricerca di questo genere di situazioni ai limiti della nicchia, ecco arrivare tra le mie mani l’edizione rimasterizzata del primo, unico ed omonimo album del trio inglese “The Running Man”.
In piena epopea progressive, il gruppo si colloca ai margini del genere, alternando ballate rock a jam di follia psichedelica con derive jazzistiche d’avanguardia. A tenere il tutto sotto lo stesso comun denominatore è l’energica chitarra elettrica d Ray Russell, il fautore della nascita del gruppo, proveniente da esperienze importanti negli anni 60, su tutte quella col gruppo dei Graham Bond.
L’album ha una partenza piuttosto tranquilla con l’intro di pregevole natura beat “Higher & Higher”, meno di due minuti in cui basso elettrico e pianoforte dialogano dolcemente. Ma i toni prendono una piega diversa immediatamente con la frenesia di “Hope Place”, nella quale irrompono le melodie modali e libere del sax dell’ospite Gary Windo, esponente di primo piano della scena jazz britannica. Dopo un breve incipit vocale, sono proprio i fiati a tenere testa alla chitarra elettrica per quasi cinque minuti di jam incredibili, sorretti da un giro di basso vigoroso e da una batteria off-tempo che riportano al finale in cui viene ripresa la melodia vocale iniziale con il ritmo ormai in fiamme.
E se la ballata rock “Nicholas” funge da intermezzo con i suoi due minuti scarsi, “Another” ha tutte le caratteristiche per essere il pezzo-manifesto del gruppo. Lungo i 10 minuti e spiccioli infatti, il gruppo percorre un riassunto delle influenze di quegli anni, partendo con un incipit molto floydiano accompagnato da un lungo tappeto d’organo che intorno al terzo minuto si prende la scena con un assolo vertiginoso che va poi a duettare con la chitarra di Ray Russell per oltre due minuti di feeling tra il new age e la psichedelia. Dal quinto minuto in poi, il pezzo si trasforma in un’improvvisazione sui generis, caratterizzata dal ritmo del basso e dall’accompagnamento di piano e tastiere trasformandosi in qualcosa di molto vicino al jazz.
Più canoniche sia nella durata che nella forma sono “Find Yourself” e “Look & Turn” che guardano in maniera più consistente all’universo rock alla Led Zepppelin, specialmente nella formula voce-schitarrate di “Look & Turn”. Sorprendenti invece i 2 minuti e mezzo di “If You Like”, pezzo che ricorda alcuni lavori solisti del John Lennon post-Beatles per il suo crescendo vocale ed il suo sound piuttosto minimale, ma che per certi versi anticipa discorsi molto più moderni e sperimentali stile Radiohead o Mogwai.
Prima del finale, c’è una perla che è un nuovo regalo per tutti gli amanti dello spirito libero di quegli anni e per i virtuosi della chitarra: si tratta di “Spirit”, ovvero quasi otto minuti di assolo di chitarra ininterrotto, a tratti affiancato dal sax di Windo. Si tratta di adrenalina allo stato puro, un grido di libertà fatto senza parole ma solo con la forza degli strumenti, tutti tiratissimi, compresa la maestosa sezione ritmica.
L’album si chiude con la title-track che mette in evidenza la natura rock del trio, ancora una volta con chitarra in evidenza ma senza assoli, piuttosto con un giro che ritorna e diviene trascinante, quasi a ricordare la chiusura di un concerto con la gente in delirio.
“The Running Man” è un grande disco, mai banale e sempre ben suonato, lontano dai clichet tediosi del progressive ma in grado di fruire dell’etichetta prog esaltandone solo i lati migliori. La ragione per cui il gruppo non ha avuto un futuro dopo questo album è dipeso dallo scarso interesse del pubblico ma non è un caso che i musicisti che ne facevano parte hanno proseguito le loro carriere, tuttora attive, suonando come “sidemen” anche al fianco di grandi nomi. E Ray Russell è anche titolare di svariati progetti solisti di tutto rispetto.
Ormai rarissimo in vinile, la riedizione in CD è ben fatta e con ottimo audio, un’occasione imperdibile per godersi questo gioiello nascosto e entrare nello spirito libero e fuggente dell’ uomo che corre.