The River – Bruce Springsteen (1980)
Titolo decisamente indovinato “The River”. Quando il boss aprì la sua decade degli 80, la sua intenzione era evidentemente proprio quella di inondare come un fiume tutto il suo pubblico, in verità sempre più copioso. Inondarlo principalmente di canzoni, visto che si trattava del suo primo disco doppio della carriera (ben 20 pezzi scelti fra innumerevoli altri); ma soprattutto sommergerlo con le sue storie, con i suoi personaggi sfortunati, quasi sempre innamorati, ma molto spesso delusi. In pratica rese ancora una volta la sua musica straripante di emozioni e il pubblico vi affogò con immenso piacere. Il disco è in pratica la conclusione di una sorta di trilogia che parte dallo straordinario “Born to run” (del 1975), passando per l’intenso “Darkness on the edge of the town” (del 1978) e rappresentò, quindi, il punto di arrivo di un’ideale e progressiva crescita, sia umana che artistica.
La E-Street band qui suona in maniera ancora più corale, come una vera orchestra rock, sin dall’apertura del primo dei due dischi con “The Ties That Bound” (maestoso l’assolo di sax di Clarence Clemons). Il pezzo a ben vedere, parlando del dolore della vita, è emblematico fra i vari temi springsteeniani. Quel dolore che ti fa piangere veramente, fino a spingerti a voler andare via, a desiderare la solitudine e ad arrabbiarti contro tutti e tutto. Come spesso accade con l’artista del New Jersey però, la dicotomia “oscurità/luce” non viene meno e resta viva la speranza di provare a rimanere attaccati ai legami costruiti nel tempo, quelli veri (gli amori, le amicizie, la famiglia) per i quali, forse, può valere la pena restare.
Il Boss dimostra di essere un cantastorie d’altri tempi, nonostante intorno a lui la musica, in quei tempi, stava profondamente cambiando e così, un capolavoro come “Indipendence Day”, suona maggiormente come l’ultimo figlio degli anni 70, invece che il primo degli anni 80. La ballata parla di un ragazzo ormai cresciuto che ha deciso di lasciare la casa paterna, a causa di un’atmosfera che in casa si è fatta ormai troppo pesante e la triste separazione, dopo anni di convivenza difficile, è diventata l’unica soluzione (“All men must make their way, come Independence day” dice il personaggio al genitore, in uno dei versi). Quello che veramente risulta grande è come Bruce sia riuscito, da cantastorie navigato, a trasformare una festa che è solo del popolo americano, in una metafora del desiderio di libertà che ogni uomo (al mondo) è legittimato a fare proprio, quando è arrivato il momento di staccare il cordone ombelicale.
Come già accennato, i protagonisti qui sono raramente degli eroi e paradossalmente anche la ritmata “Hungry Heart”, il pezzo forse più celebre di “The River”, in realtà parla di un uomo che racconta ad un amico di aver lasciato per sempre moglie e figli, a Baltimora. Sembra lo abbia fatto quasi per difenderli da sé stesso (“Like a river that don’t know where it’s flowing, I took a wrong turn and I just kept going”) e alla fine si ritrova solo a Kingstown, proprio dove si era innamorato della sua donna, con la quale le cose non hanno poi funzionato. Qui è più la musica, col suo piglio radiofonico e quel video così allegro, a lasciar intendere che dopo tutto, pur nell’amarezza della situazione, ci sarà la possibilità di rifarsi una nuova vita.
Simile in fondo il tema della stessa title track, che chiude magnificamente la prima parte. È come una specie di film raccontato sulle note di un’armonica, di una chitarra acustica e di un piano da sogno (del grande Roy Bitten) nel quale il marito di Mary racconta la loro storia d’amore nascere fra i banchi di scuola per poi svanire dopo il matrimonio, trasformando “il sogno” in una “maledizione”.
Per raccontare questo album ci vorrebbero fiumi di parole che rischierebbero di tediarvi, ma non si può non ricordare che anche nella seconda parte ci sono pezzi memorabili come l’iniziale “Point Blank”, “Fade away” e la dolcissima “Stolen Car” che riprende in parte il tema della citata “The River”, con la differenza che qui la voce narrante è quella di un ladruncolo di macchine.
Il doppio LP si chiude da storyteller navigato con “Wreck on the highway” (ecco, la strada è sicuramente lo sfondo principale che unisce questo disco, come un fil rouge, ai due precedenti) che racconta di un incidente d’auto tremendo dopo il quale sopraggiunge il protagonista, mentre guida di notte. Chiamerà l’ambulanza per cercare di salvare il ragazzo (della cui sorte la canzone non parla), ma la sua preoccupazione va alla possibile fidanzata o moglie che potrebbe vedersi arrivare a casa un poliziotto, per dargli la brutta notizia della sua morte. Il Boss è così: un narratore esplicito (in questo, direi, lontano dall’ermetismo Dylaniano nonostante l’indubbia influenza) che si fa portavoce delle storie americane di città o di periferia, vissute da uomini normali, come potremmo essere noi stessi, che ci alziamo la mattina o magari ci capita di rimanere svegli nel letto a pensare a quello che ci è successo la notte prima (“just lay there awake in the middle of the night thinking about the wreck on the highway”).
Concludo questa lunga recensione richiamando il titolo della nostra rubrica con la quale stiamo lentamente rispolverando i capolavori degli ultimi 50 anni: su un’isola deserta la collezione del Boss sarebbe da portare almeno per metà ma, in caso di mancanza di spazio nella valigia, “The River” sarebbe certamente fra i 3 o 4 imprescindibili.