The Promise – Bruce Springsteen. Recensione
Prima di scrivere questa recensione, che già preannuncio come “meno stringata” rispetto al mio standard, vorrei evidenziare una certa ritrosia, in generale, a sviscerare un lavoro del Boss.
Sì perché il personaggio è così tanto seguito ed amato, quando non addirittura osannato, dai suoi fan (fra i quali, sia chiaro, mi schiero anche io) da rendere quasi superflua qualsiasi informazione sulla sua storia: in pratica, sul suo conto, tutti sanno già tutto.
È per questo motivo che, nel commentare The Promise (the lost sessions from Darkness on the edge of the town), deliberatamente salterò ogni notizia sui motivi che stanno dietro l’anomalo ritardo trentennale della sua uscita, preferendo dedicare maggior spazio al legame fra il cuore di questo autore, certamente unico come pochi, e l’anima delle sue canzoni.
Intanto possiamo dire che il doppio disco entra subito a pieno titolo come pietra miliare della sua discografia, in quanto perfettamente coerente con quanto ci dice lo stesso Bruce nel libretto del disco (tra l’altro molto suggestivo e con foto che si sposano bene con musica e testi dei brani) e cioè di aver sempre voluto scrivere “tough songs for people in the toughest situations”. Sia chiaro, anche il “nostro Boss” ha partorito e partorisce canzoni molto gioiose (basti pensare a “Waiting in a Sunny Day”, in un contesto come quello di “The Rising”), ma per lui la serenità, o la felicità, non sono per l’appunto mai isolate rispetto al dolore o alla fatica quotidiana, ma sono piuttosto il frutto di una conquista o dell’affrancamento dalla sfortuna, dalla povertà, dalla guerra (“Youngstown”), o perfino dalla prigione (la splendida e malinconica “Straight Time”, da The Ghost of Tom Joad).”
Tornando a The Promise, quindi, possiamo dire che la costante ricerca di evasione, o di redenzione, dalle negatività funge da spunto per tessere le maglie di quasi tutti i suoi 21 racconti. Alcuni di essi erano già conosciuti, ma in altre versioni, come la iniziale “Racing into the street ‘78” (musicalmente arricchita, rispetto alla versione che fu messa su Darkness, da un’armonica da brividi), altre invece fanno praticamente parte della storia live del Boss, come “Because the night” (scritta, come noto, con Patti Smith).
Volendo scegliere i pezzi più significativi, inizio volentieri da alcuni che parlano esplicitamente di amore, nei quali i sentimenti non si esprimono mai in maniera sdolcinata o retorica, ma sono sempre legati a doppio filo alle durezze della vita che in qualche modo impedisce di viverlo pienamente, o comunque in maniera spensierata.
“We ain’t got money, but we don’t care”, ad esempio, canta l’innamorato alla sua donna in “Gotta get that feeling”, invitandola a passare una serata diversa, rivivendo i bei tempi che furono. Il pezzo, inciso solo di recente, a giudicare dalla voce matura del cantante, è suonato in maniera magistralmente ariosa dalla E street band & C., con tanto di trombe e fiati in stile mariachi che contribuiscono a sottolinearne il lato più festoso.
In “Someday (We’ll be together)” è bello e intrigante il risveglio nel pieno della notte di lui che, dopo aver sognato di poter passare finalmente la notte con la sua lei, si veste pur non sapendo dove andare. Ognuno resta a casa propria, e allora coglie l’occasione per giurarle che comunque il loro amore durerà per sempre e prima o poi passeranno un’intera notte insieme. Musicalmente è una ballata d’altri tempi con un coro di donne in pieno stile anni ‘70 emotivamente molto efficace.
“Wrong side of the street” è a mio avviso il pezzo rock più bello e trascinante del disco. Il ritmo incalzante si sposa benissimo con il testo in cui il protagonista invita la donna che vorrebbe conquistare a lasciar perdere guai e pericoli nei quali ha vissuto per tanto tempo, dirigendo finalmente il proprio sguardo verso chi le vuole veramente bene. Il finale è tutto un programma: “open your eyes and throw down your illusions – and see tonight there’s no one here but you and me”.
Dolce, con i violini in prima linea, la breve ma intensa “Come on (let’s go tonight)”, versione riarrangiata e con testo totalmente differente di “Factory” (sempre da Darkness). Rispetto a quest’ultima, la malinconia con la quale il fidanzato invita la sua lei ad un ballo sembrerebbe paradossale ma, come detto ampiamente qualche riga più sopra, Springsteen è così e non c’è proprio da stupirsi se poi alla radio uno speaker annunci che un certo Elvis Presley è morto e che, quindi, ci sia ben poco da stare allegri o da festeggiare.
Le storie un po’ tristi dei tre personaggi (Sonny, Janie e Bobby) di “Breakaway”, nonché la simpatica chiacchierata fra un tassita e il suo cliente impaccato di soldi (in realtà è solo il secondo che ha voglia di parlare), che si fa accompagnare dalla ragazza sperando di godersi la notte con lei, di “City of night”, concludono alla grande (insieme all’ormai arcinota title track, già pubblicata in “18 tracks”) questo disco che ogni amante dell’autore americano finirà per consumare.
Riassumendo, credo che l’aver riesumato del materiale dal suono così (naturalmente) vintage, in un epoca in cui più o meno tutti cercano sfacciatamente di riprodurlo in studio (si pensi a “Back in black” di Amy Winehouse, fra i tentativi meglio riusciti) per evocarne fasti e fortune commerciali, sia da considerare un vero e proprio colpo da maestro da parte di uno come il Boss, il quale ha saputo tenere (semi)nascoste nel cassetto queste perle per ben 30 anni, regalandole finalmente a chi (come noi) non vedeva l’ora di ascoltarle e, siamo sicuri, cantarle a squarcia gola nei suoi prossimi concerti in giro per il mondo.