The Next Day – David Bowie
Di David Bowie negli ultimi anni si è detto di tutto… “ha smesso di suonare”, “è gravemente malato” o addirittura “sta per morire”.
Uno come lui, che alle spalle ha una carriera discografica straripante in ogni senso e che sta sulla piazza da fine anni ’60, non sarà rimasto del tutto insensibile a queste funeste voci di corridoio ed è quindi assai probabile che, quando ha deciso di spiazzare tutti, preparando in gran segreto il suo ritorno, si sia detto “voglio farlo alla grande”.
Non che i suoi ultimi dischi (Reality del 2003 e Heaten del 2002) fossero da scartare, anzi il livello è sempre rimasto piuttosto alto, ma in verità nessuno di questi ha mai dato la sensazione di sfiorare le vette toccate nella sua oggettivamente riconosciuta “golden age” (che va da Space Oddity del ’69 a Scary Monster dell’80, tanto per capirci). Oggi invece, con “The next day”, la sensazione al primo ascolto è che ci si trovi di fronte ad un disco che lascerà un solco assai più sensibile nella storia della musica avendo un filo diretto proprio con quella succitata era, dalla quale ripesca ispirazione e suoni, in una sorta di summa generale della sua esperienza artistica.
Bowie ha sempre avuto la capacità di spiazzare l’ascoltatore, in alcuni casi di scioccarlo con approcci o arrangiamenti forse apparentemente sperimentali, ma in realtà spesso soltanto ante litteram ed anticipatori dei tempi. Con The next day in pratica riprende quanto di buono evidenziato nel suo passato e lo rielabora alla luce della sua odierna sensibilità. Certo non stupisce più con il rock sghembo alla Clash della title track, piazzata giusto all’inizio del disco, ma l’obiettivo non è più quello, quanto piuttosto di rimarcare che la sua verve è rimasta immutata e che il singolo apripista “Where are we now?”, fra i più amarcord e tristi di sempre, era lungi dal rappresentare il vero portabandiera dell’album. Alla fine si rileverà, semmai, un’eccezione (più che gradita, intendiamoci) alla regola.
Con “Dirty boys”, ed i suoi filtri vocali usati nella strofa non si capisce se si diverta più a evocare il Jim Morrison più onirico o quel Tom Waits maggiormente in esilio dalla melodia (ritrovata magicamente nel refrain). Gli fa da contraltare la seguente “Stars are out tonight” che invece è il pezzo più radiofonico dai tempi di “Let’s dance”, pur non essendo affatto commerciale, e sono già certo che la consumerò fino alla nausea (bellissimo tra l’altro il video).
Il meglio di sé il disco lo offre soprattutto nella seconda parte (senza dimenticare tuttavia, una splendida “Valentine’s day”, vintage al punto giusto, con quei coretti “….shallala, shallala!!”….) a partire da “I’d rather be high” introdotta da una piacevole chitarra elettrica dal suono più pop e dal ritornello che stuzzica i palati fini.
“Boss of me”, forse un po’ più cupa, ci regala nuovamente un Duca Bianco in grande spolvero, proprio come l’inconfondibile firma stilistica di “How does the grass grow? la cui magnificenza barocca sembra quasi farla uscire da un musical sulla sua vita, impreziosita com’è da quella sorta di frullatore strumentale al vetriolo, nel finale. Eccezionale.
Ma la goduria non è finita, e così il riff tagliente che apre “(You will) set the world on fire” echeggia fortemente quello di Jack White all’inizio di “Sixteen Salines” (da Blunderbuss), ricordandoci che in questi ultimi 10 anni il “nostro ragazzo” ha tenuto la radio sempre bene accesa. Imperdibile.
Non manca la ballata d’altri tempi di “You feel so lonely you could die”, nella quale il richiamo alla morte (proprio come l’ultimo Dylan, che addirittura gli ha dedicato l’intero album) è funzionale a ricordare l’inevitabile destino di chi si sente così perduto da vagare da solo in un parco, di notte, nel ricordo di tutto quello che è andato così tanto storto da sentirsi abbandonato perfino da Dio. Il climax di malinconia finisce poi con “Heat”, per certi versi un po’ la sorella gemella della succitata “Where are we now?”.
Termino questa mia recensione (mi scuso, un po’ lunga… ma la materia a mio avviso meritava) evidenziando che questa nuova avventura di Bowie pur essendo piena di pezzi musicalmente molto eterogenei, paradossalmente, grazie al loro elevato livello qualitativo, dà la sensazione di una notevole solidità ed unità complessiva. Se non è un capolavoro, insomma, ci siamo molto, ma molto vicini.
PS: Nella edizione deluxe c’è una imperdibile (credetemi!) “So She” e altri due brani (di cui uno strumentale) che non passano inosservati…quindi vale proprio la candela… pardon la manciata di euro aggiuntivi.