Tempest – Bob Dylan – Recensione
Scusate se butto subito le mani avanti, ma dovete mettervi nei miei panni: raccontare un’opera di Bob Dylan è come un esame di Stato. Se poi aggiungete a questo che è la mia prima recensione del menestrello di Duluth e che, verosimilmente, potrebbe trattarsi del suo ultimo album, la questione diventa tanto impegnativa da far quasi desistere.
Detto ciò, prenderò comunque i miei rischi e vi dirò che, nonostante si tratti del suo 35° disco in 50 anni di carriera (no dico, non so se rendo!) non mi sono ancora annoiato di ascoltare questo Artista – la maiuscola è assolutamente d’obbligo – ormai settantunenne, che sembra ancora divertirsi come un ragazzino a scrivere e a cantare storie, tanto vere quanto improbabili, di personaggi a volte sghembi ma interessanti, toccando alternativamente il tema dell’amore, della vita, ma soprattutto della morte. Questi tre elementi – pare chiederci Dylan – non sono dopo tutto, così inscindibilmente legati che… quasi quasi, vale la pena scherzarci su, per tentare di esorcizzare il paradosso esistenziale che ne deriva?
Come dicevo, proprio la morte sembra l’argomento dominante di questa tempesta dylaniana, sin dall’iniziale Duquesne Whistle, che inizia con un motivetto anni 40 e gioca con l’allegoria riferita al treno che ci porterà nell’aldilà. Sembra che lo senta vicino il fischio di quel treno (Knocking on heaven’s door…vi dice nulla?), imminente, tanto da ossessionarlo come una donna che ogni mattina si ritrova nel suo letto. Poi nel video mischia totalmente le carte e ci racconta con sarcasmo la storia violenta di un folle e pericoloso colpo di fulmine, nella quale lui gioca nel finale il ruolo (non protagonista) di una sorta di boss di un manipolo di diseredati da strapazzo. Roba da oscar come miglior corto dell’anno!
Come al solito, per il resto sono le ballate, il suo asso nella manica. A cominciare da “Soon after midnight” che è una sorta di dichiarazione d’amore notturna, romantica e gentile come solo Dylan può permettersi di fare. Realizzata con quel tono un po’ dinoccolato, in un altro disco, di un altro autore, verrebbe presa come una sorta di parodia, ma chi lo conosce sa che i suoi sentimenti sono sempre veri e a lui piace lasciarli alla storia così, correndo il rischio di essere frainteso, pur di fare sempre le cose a modo suo, cioè contro corrente. Malinconica sin dal titolo “Long and wasted years”, storia di un uomo che sente l’amata parlare nella notte e vaneggiare di omicidi… ed altre diavolerie da incubo che, come tutti i brutti sogni, non hanno in realtà un gran senso.
Viene poi il momento dei tre pezzi forti finali (in tutto, ben 30 minuti di musica): prima il lungometraggio (di ben 9 minuti) di “Tin Angel”, quasi un mantra, senza neanche un ritornello.
Segue la title track (di quasi 14) dedicata alla tragedia del Titanic. L’occhio è quello descrittivo e didascalico di uno spettatore occasionale, quasi privo di emozioni di fronte al lento inabissarsi della nave più famosa della storia (non sarà mica di sé stesso che sta parlando…?), ma il tono generale è tutt’altro che triste. Il paradosso, di nuovo, regna sovrano. La morte è vista come la grande equalizzatrice umana, davanti alla quale non c’è ricchezza o povertà e tutti siamo inesorabilmente uguali. Come nella celebre “Hurricane” (che guarda caso era anch’essa lunghissima e descriveva la cronaca di un evento drammatico, ma con la rabbia per l’ingiustizia sociale ed il razzismo strisciante) i violini lo aiutano a cesellare, questa volta in compagnia di fisarmoniche e steel guitars, le oltre 40 strofe che descrivono il funesto evento.
L’ultima canzone è un inno al suo caro amico di tante battaglie – negli anni 60 – contro la guerra, John Lennon, ed alla sua triste e improvvisa dipartita (ops…di nuovo) da questa vita terrena. “Roll on…” è il suo invito e, a mio modesto avviso, proprio la speranza in un al di là più bello e sereno è la chiave di lettura dell’intero disco e delle sue apparenti contraddizioni.
Fra i pezzi uptempo precedenti – categoricamente old style – non si possono non citare (visto il personaggio mi perdonerete qualche deroga al sacro principio della sintesi) l’ipnotica e affilata “Narrow way”, nonché la stupenda e rockeggiante “Pay in blood”, che a fianco a “Like a rolling stone” e “Things have changed” potrebbe ritagliarsi un posticino nel cuore dei fan più esigenti.
Unica canzone che al posto suo avrei tolto è francamente il blues categorico di “Early roman king”: lui potrà fare sempre come vuole, ma è nostro il privilegio di poter scegliere e, se del caso, scartare qualcosina (non di più).
Chiudo con uno spot flash: Tempest è un disco fuori dal tempo, fra i più complessi di Dylan e forse, anche per questo, fra i più belli.