Taras Bul’ba Amur, recensione
In questa vita da lettore, incontrai Nikolaj Gogol nello sconquassato periodo liceale, quando mi innamorai della lucida follia surreale de “Il naso”. Proprio partendo dai racconti di Sanpietroburgo mi inoltrai in quel mondo letterario, fino ad incontrare tracce d’anime morte.
Nel mio viaggio all’interno di quella stranita cultura russa, mi imbattei in un nome che oggi ritrovo nel progetto milanese dei Taras Bul’ba, combo alternative che prende il nome proprio dalla novella storica dell’autore di Bol’šie Soročincy. Il disco, licenziato da Wallace records e Lizard Records, offre un labirinto musicale in cui ci si perde immediatamente, riuscendo a percepire mescolanze stilistiche che vanno dallo stoner al math rock e dall’indie alla psichedelia.
Otto brani che non dimenticano il proto punk, il jazz ed il prog, fusi e confusi nella ricerca di sperimentale e al contempo raccontare attraverso note assestate in un’apparente ed inquieta caoticità.
L’album, a dire il vero però, non si presenta nella maniera migliore, infatti la maschera estetica appare scarna e retrò, incapace di accogliere un estetismo più adeguato. La fotografia introduttiva e la pochezza espressiva, danneggiano il primo approccio con l’opera, disagio immediatamente restaurato dalle sensazioni rare che le partiture avanzano. Ad aprire la finestra sulle note impegnate ed impegnative del disco, sono i gentili sovrapporsi del tribalismo batteristico ad un interessante minimalismo alla sei corde, che ci introduce ad un andamento pacato, ma al contempo dilaniato da enclave soniche brevi ed intense, atte ad affievolirsi sul breve, per poi tornare al fil rouge introduttivo.
L’ambiente alternative dei Taras Bul’ba appare modulato secondo sequenze e frequenze prossime al proto noise e allo sperimentalismo. Una sorta di rumorismo in cui il gioco vocale si aggiunge come un semplice, ma funzionale, elemento aggiuntivo. Infatti , quando la voce inquieta del front man emerge con Ogro, i sussurri ci danno uno sguardo verso il mondo onirico ricercato dalle strutture base, tra viaggi astrali e surrealismo spinto.
Se poi piacevole appare la cadenza strutturale del brano estremizzato in post nella sua parte finale, appare anche veritiera la piacevolezza heavy di Short drop, convulsivo e compulsivo lineamento prog, gestito in maniera aggressiva da andamenti ciclotimici.
Meno a fuoco appaiono infine la ridondante titletrack ed il velato post di Psicofonia, che si collocano un gradino al di sotto dell’intreccio sonoro espresso con My name is Igor e la convincente chiusura di Ior. Il brano terminale, annoverabile tra le migliori composizioni del disco, ci arriva come brano fermo e marmoreo, in cui gli spazi compositivi alternano sviluppi estensivi di post rock, impreziosito dalla calibrazione delle pelli e dalle spezie stoner, che anticipano una chiusura atta a ricoprire la distanza iniziale. Nove abbondanti minuti che non perdono l’orientamento, proprio come accade a questo full lenght difficile ma diretto.
Tracklist
1. Coup de Grace
2. Ogro
3. Short Drop
4. Amur
5. Psicofonia
6. My name is Igor
7. Vertebra
8. Ior