Talk Talk – Spirit of Eden
Non è facile parlare di un disco come questo. I Talk Talk infatti hanno legato la loro prima parte di carriera ad un pop abbastanza leggero (non superficiale!) ed a successi quali It’s my life e Such a shame (dall’album It’s my life) o Life’s what you make it (dall’album The color of spring).
La pasta sonora accattivante e raffinata dei lavori precedenti fa posto ad un’introspezione, un minimalismo che sulle prime può lasciare vagamente perplessi. Beninteso, lo stile rimane riconoscibile, ma a livello compositivo si avverte la necessità di abbandonare qualsiasi cliché, unita ad un’inquietudine quasi tangibile.
Ed ecco quindi dipanarsi la lunga introduzione di The rainbow, in cui un riff di chitarra semplice semplice squarcia i due minuti e passa dell’angosciata introduzione, il tutto alimentato da rumori quasi sotterranei. L’umore del brano è decisamente virato al chiaroscuro, come del resto tutto l’album. Il pianoforte è appena accennato, la batteria segue sommessa l’evolversi dilatato degli eventi; si nota che la stesura musicale è orientata alla sottrazione più che alla stratificazione.
Prima di procedere alla disamina dell’album, sorgono spontanee due considerazioni e cioè:
1) in un’epoca come la nostra di saturazione mediatica un’atmosfera come questa può generare nell’ascoltatore un certo senso di horror vacui;
2) i Talk Talk non hanno certo riposato sugli allori e si sono messi in gioco prendendosi un bel rischio.
Mentre sono assorto in questi pensieri, irrompe sul primo brano la voce inconfondibile e sofferente di Mark Hollis: il gusto melodico è intatto, ma è tutto più misurato (adulto?). Nei quasi otto minuti del brano la musica scorre senza sbalzi, ma la bella apertura del ritornello (o quello che potrebbe essere catalogato come la sua approssimazione) è da brividi. Il riff dell’intro viene ripetuto in vari momenti durante il pezzo, ma la vera chicca rimane il pianoforte che chiude i vari “movimenti” con accordi in sordina.
La successiva Eden è quasi un’estensione della prima traccia (tra l’altro senza neanche un secondo di pausa); a rompere gli indugi è una chitarra un po’ caciarona e pesantemente distorta che fa da asse portante ai passaggi più intensi. Anche qui la struttura armonica è ridotta all’osso.
Un altro riff ossessivo di chitarra per Desire, brano più strutturato dei precedenti in cui al dolce incedere dell’organo, che sorregge quasi da solo la voce di Hollis fanno da contraltare improvvise coagulazioni elettriche, con la chiusura affidata a poche note di piano.
Inheritance è invece un brano orecchiabile, con qualche passaggio melodico che sembra provenire direttamente da qualche take dei dischi precedenti, ma con un interludio strumentale piuttosto anomalo che spezza la melodicità del cantato.
Si passa poi a I believe in you, un altro brano abbastanza orecchiabile, sostenuto da una batteria impalpabile e speziato dal contributo del coro pdella Cattedale di Chelsford.
Il disco si chiude con Wealth, sospeso sul filo sottilissimo dell’organo Hammond che fa quasi da unico appiglio alla voce di Hollis.
Dicevo, prima di essere interrotto nelle mie elucubrazioni dalla voce di Hollis nel primo brano, che i Talk Talk con questo disco hanno provato a buttarsi dallo strapiombo senza sapere se alla fine il paracadute si sarebbe aperto.
Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza
Beh, i posteri siamo noi, ormai sono passati 22 anni e l’enigma persiste. Per quello che mi riguarda, potrei azzardare un tipo di analisi mutuato dalla pittura: l’artista ha abbandonato il tratto dalle connotazioni stilistiche più convenzionali per dedicarsi ad un percorso di ricerca.
E poi, per inciso, a me gli artisti che rifiutano l’autoreferenzialità stanno in vetta alla mia personalissima classifica. E i Talk Talk possono starci a pieno titolo.