storie di non lavoro
Tra le tante cose che rendono unica l’Italia c’è l’incredibile diversità delle realtà artistiche che ne compongono la tradizione musicale. Dalla classica melodia alla canzone sentimentale, alle centinaia di sfaccettature regionali fino alla deriva commerciale del pop più becero, tutto fa parte di un grosso calderone chiamato musica italiana. Ed uno dei vanti di questo contenitore bizzarro è senza dubbio il cantautorato d’impegno, quello dei Guccini, dei De Andrè, dei Fossati e tanti altri. Un genere senza tempo che è trasversale a tutte le generazione delle quali ne è la colonna sonora nei momenti di lotta, di pensiero e di svago. Un genere che per forza di cose si incentra sulle parole, il cui significato pregno di profondità mette spesso in secondo piano la parte musicale, anche quando questa e curata di un certo livello.
Tra gli esponenti contemporanei di questo filone, si distingue Giubbonsky, il cui cantato va a fondersi con un tessuto musicale che fonde folk acustico ed elettrico ad influenze jazz e rock. Il suo nuovo album contiene nove tracce i cui testi focalizzano l’attenzione su argomenti estremamente attuali, approfonfendone la visione con interpretazioni precise ed ideali chiari e netti. E’ subito veemente, a far da contrasto ad una melodia tranquilla, il testo del pezzo d’apertura “Terra Perduta”, che fa riferimento ai Rom ed al loro stato di emarginazione non voluta, mettendo in luce gli aspetti storici e culturali di un popolo travolto dal fango da politici e media. Perfetto il folk-jazz che accompagna “Non Lavoro”, una sorta di filastrocca ironica sul precariato e sulla disoccupazione e su tutte le costrizioni sperzonalizzanti ai quali l’umanità è costretta per entrare nel mondo dei professionisti. Un inno disperato ma sorridente che soffia contro il capitalismo galoppante del mondo di oggi. In “Città Blindata” l’attenzione si sposta verso la speculazione politico-palazzinara sulle città come Milano rese fantasma laddove la gente viene allontanata da strade e piazze e nelle quali “inventano divise che ci fiatano sul collo”. In questo caso è rtimo è più canonico, acustico, classico nel suo cantautorato. Flash di De Andrè nel suo “Rio Preca”, un pezzo piuttosto complesso musicalmente, nel quale l’incipit minimalista di lenti fiati lontani viene bruscamente interrotto dall’irruenza di una sirena che dà il via ad un rock quasi radioheadiano impreziosito da un sax che sottolinea i break tra un verso e l’altro. Il tappeto perfetto per la rabbia indirizzata verso la condizione in cui versa una gioventù priva di sicurezze sul lavoro, del quale vengono evidenziati tutti gli aspetti, dalle morti bianche all’assenza di forza di reazione da parte dei lavoratori sfruttati. Latineggiante e supportata da una batteria vivace “Forza Mafia”, laddove la voce megafonata vuole mettere l’accento sulla potenza dei mezzi di comunicazione tramite i quali il popolo è controllato mentalmente. Testo intelligente quanto difficile, reso accattivante da rime baciate a volte un po’ scontate e dalla provocazione finale in cui Giubonsky ripete più volte “forza mafia”.
La seconda parte del disco si apre con la malinconica “Flatulente”, chitarra e fiati che fanno da contorno ad un testo che si indirizza alla pochezza e alla corruttibilità del politico medio del nostro paese. Ritmi che quasi si ripetono in “Gelato in Febbraio” che ripercorre in maniera commovente l’avvenimento dell’omicidio di Luca Rossi, freddato a vent’anni da una pallottola “di ordinanza”, mettendo a nudo le falle di un sistema che protegge chi uccide nascondendo i propri torti sotto una divisa. Un testo duro, capace di fondere la rabbia con la dolcezza toccando sentimenti di tutti i tipi. Decisa sferzata rock in “Carpe Diem”, in cui la melodia sostenuta da un’incalzante chitarra elettrica sembra quasi prevalere sul testo che incita a far seguire la ribellione al lamento. L’ultimo pezzo dell’album, “Senzacqua” (titolo che è una dedica all’omonimo centro sociale milanese) gioca su un sound movimentato e leggero, fungendo quasi da contrasto alle dure accuse alla classe politica e dirigente ed ai loro veri scopi, cioè quella di accrescere le loro ricchezze divorando i sogni e le speranze di chi vive in difficoltà e cerca di emergere tra mille problemi.
I messaggi di Giubbosky sono diretti ed inequivocabili ed è inevitabile una spaccatura tra i giudizi dipendente da i diversi ideali dell’ascoltatore. Ma al di là dei testi, è apprezzabile l’originalità della fusione di suoni di diverso stampo a tali testi e ad un utilizzo della voce che, seppur a volte un po’ monotono, è sicuramente originale e mai ridondante, Un disco che dimostra l’esistenza di un filone concreto e profondo nella musica italiana di oggi, che a suo modo dà speranza ed energia.