Storia del Jazz – Capitolo 9. Chris McGregor

Chris McGregor

Chi potrà mai sottometterci finchè avremo la nostra musica?.

Terremo sempre presenti queste parole che la cantante Miriam Makeba scrive nella sua autobiografia per parlare di un altro pianista sudafricano, nato a Somerset West nel 1936 e scomparso nel 1990: Chris McGregor.

C’è chi lo considera un vero e proprio simbolo del jazz sudafricano; del resto, dopo aver compiuto studi classici viene in contatto con gli Xhosa (uno dei quattro ceppi nguni, in cui si divide l’etnia bantu) e con la loro musica, basata su un forte senso comunitario. E’ proprio questa la matrice del suo lavoro che può essere apprezzata già dal primo disco, Brotherhood of breath, edito nel 1971 per la Rca Neon.

Amando le big band, la loro energia, i loro colori, il pianista inventò un modo per creare in gruppo, per fare in modo che le structures non divenissero strictures. […] Il collettivismo egualitarista del free (estetica che egli tenne presente costantemente nei suoi lavori, n.d.r.) si sposa con la musica sociale e rituale del Continente Nero; si attinge ai poliritmi africani, agli inni protestanti ibridati, allo swing americano, alle musiche improvvisate europee e il risultato è stupefacente*.

E’ comunque essenziale sottolineare anche un’altra figura di musicista e leader cara a McGregor e a lui sempre vicina nei momenti più importanti della sua vita artistica, il sassofonista e compositore Dudu Pukwana. Pukwana è soprannominato “il leone di Port Elizabeth” (dove era nato nel 1938) non a caso; esso manifesta il suo modo di suonare grintoso e coriaceo, melodicamente complesso, tanto da ricordare, in certi momenti, il fraseggio di un Eric Dolphy e, ovviamente, l’originalità di un Ornette Coleman.

Entrambi saranno legati, oltre che da salda amicizia, anche da uno strenuo rapporto professionale (il destino volle poi che morissero nello stesso anno).

L’altosassofonista ha conservato intatta negli anni l’esigenza di suonare musica basata sulle proprie radici sudafricane, concretizzandola in un caleidoscopio di formazioni ed esperienze**.

Naturalmente, tutto ciò che si è in precedenza scritto a proposito di Ibrahim, riguardo alla condizione sociale e politica del Sudafrica, vale anche per i due musicisti di cui ci stiamo ora occupando; infatti

per i musicisti sudafricani la vita era pressochè impossibile, stritolata dai meccanismi dell’apartheid. Una delle ragioni per cui il jazz fu soppresso era che esso aspirava a un’eguaglianza musicale e sociale; era precisamente il linguaggio con cui i neri delle città stavano provando a se stessi e al mondo che erano uguali ai bianchi, pur senza abbandonare elementi di rilievo della propria cultura nera, o della propria storia di neri e che stavano assimilando aspetti di quella occidentale.***

Solo all’inizio degli anni ’80 si può notare una prima rinascita del jazz in questa regione, quando cioè si avvertono i primi vagiti contro un regime assolutamente anacronistico e disumanizzante.

Il jazz si riafferma perché continua ad essere portatore di profonde istanze antiapartheid e perché resta per la comunità nera uno dei veicoli di affermazione di sé (interna e internazionale).****

Pur avendo una ricca discografia alle spalle, per illustrare le caratteristiche di questi due grandi musicisti, abbiamo scelto di parlare in particolare proprio di quel disco prima citato e ci soffermeremo soprattutto sul primo brano, Mra, che racchiude la peculiarità compositiva di Pukwana e quella di arrangiatore di McGregor.

(la Brotherhood of Breath creata a Londra da Chris McGregor , accogliendo anche jazzisti europei, in una foto dei primi anni ’70).

L’aspetto più evidente è la geniale capacità di legare le sezioni di una big band “ad incastro”, rendendo estremamente chiara la disinvoltura con cui il pianista utilizza i variegati colori della sua tavolozza orchestrale. Il brano è costruito sul concetto di “stratificazione sonora”, un’intensificazione cioè dello spessore orchestrale che si fa via via più presente lungo lo svolgersi dell’intera composizione.
Di seguito mostriamo l’incipit, carico di groove, realizzato da contrabbasso, pianoforte e batteria, la velocità è di circa 160 b.p.m.: si noti, al proposito, che la linea del basso non è un semplice raddoppio di quella del piano, ma suona una quinta sopra, rendendo più evidente l’armonia

La batteria accompagna con una figurazione ostinata, che ben si adatta al comping degli altri due strumenti. Poco dopo entra il trombone con un riff che arpeggia i due accordi di settima di dominante su cui è costruito l’intero tema principale, G7 e F7:

Assieme al trombone entrano i sax con una punteggiatura armonica, semplice, ma carica anch’essa di ritmo e mood

Il tema di Pukwana è eseguito dalle trombe all’unisono, mentre il resto della band continua i suoi obbligati

Ma è la seconda idea che viene resa magistralmente dall’arrangiatore

Osserviamo come la linea melodica principale sia, infatti, ora affidata – nelle prime 3 battute – ai tromboni, poi ai sax, “puntellati” adeguatamente dalle trombe.

Gli altri pezzi del disco manifestano altri importanti aspetti dell’estetica del gruppo; ad esempio, Davashe’s dream, è una struggente ballad in cui primeggia il solo dell’alto di Pukwana, sempre al limite delle possibilità espressive dello strumento e sempre in bilico tra sonorità free e fraseggio più intensamente melodico. Andromeda è invece una composizione di McGregor, in cui si alternano una prima parte su ritmi marcatamente africani (resi per mezzo di una ricca compagine di percussioni) e una seconda medium swing. Pezzo più artatamente free è invece Night poem, in cui tutta la band partecipa a realizzare una trama liberamente improvvisata, ma serratamente legata da un solido, reciproco ascolto.

Non dimentichiamo che anche in questi anni difficili si mantengono e, in certi casi, si costruiscono rapporti fertili tra musicisti africani e inglesi e, ancora una volta questo disco dà dimostrazione di ciò; tra gli esecutori compaiono infatti nomi di artisti inglesi quali quelli di Alan Skidmore, Mike Osborne e John Surman. Ciò grazie anche all’accoglienza che l’Inghilterra più progressista riserva ai musicisti di colore;

Dopo anni di contatti difficili, di apartheid, di impedimenti alle più elementari libertà, la scena londinese rappresenta, pur con tutte le oggettive difficoltà di sopravvivenza per gli emigranti di colore, un’esplosione di energie, un luogo dove sperimentare e sperimentarsi con altri musicisti in combinazioni quasi infinite.*****

Il jazz sudafricano non si ferma e continua a fiorire nella riconquistata libertà, non smettendo di stupire, nel suo doppio e fecondissimo connubio tra Africa e Afroamerica; queste parole di Onori costituiscono l’ideale congedo da questi interessantissimi pianisti africani, dai quali ci allontaniamo geograficamente per parlare, nel prossimo appuntamento, di un altro grande musicista, cubano stavolta, Omar Sosa.

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* L. Onori, Il jazz e l’Africa., pagg. 258, 259.
** L. Onori, op. cit., pag. 260.
*** Christopher Ballantine, Marabi Nights: Early South African jazz and vaudeville, Johannesburg, Ravan Press, 1983.
**** L. Onori, Il jazz sudafricano, in Musica Jazz, anno 53°, n.12 dicembre 1997.
***** L.Onori, Il jazz sudafricano, op. cit.