Storia del Jazz – Approfondimenti. Caravan nella versione Jazz Messengers

Caravan - Cd cover

CARAVAN NELLA VERSIONE “JAZZ MESSENGERS”
La coscienza africana nei musicisti dell’Hard-bop

Nell’escursione “giornalistica” da noi curata riguardo ai costanti contatti tra jazzisti neroamericani e Africa abbiamo più volte sottolineato che, anche quando tali legami sembravano solo superficiali o addirittura inesistenti, la musica jazz non ha mai potuto scostarsi da tale portante radice culturale. Se ciò risultava meno evidente era perché più o meno latenti leggi di mercato o altrettanto inique richieste da parte di discografici compiacenti volevano relegare ciò al mero posto di sfondo “esotico”.

In questo secondo approfondimento abbiamo intenzione di prendere in esame una registrazione storica, realizzata da uno dei gruppi più interessanti del jazz anni ’50-’60: I Jazz Messengers di Art Blakey, che eseguono Caravan di Duke Ellington. Essa dimostra pienamente le nostre considerazioni al riguardo.

L’incisione è tratta dall’omonimo album del 1962, pubblicato dalla Riverside; la formazione annovera alcuni tra i più importanti artisti degli anni a venire: oltre al loro leader alla batteria, c’è Freddy Hubbard alla tromba, Wayne Shorter al tenore, Curtis Fuller al trombone, Cedar Walton al pianoforte e Reggie Workman al contrabbasso.
Si è ormai d’accordo nel riconoscere l’enorme importanza del movimento musicale dell hard-bop all’interno del jazz.

Mentre con le prassi improvvisative del cool jazz ci si avvicinava ad una polarità “visiva”, con l’hard-bop e con il soul jazz, altri due stili jazzistici originatisi alla metà circa degli anni Cinquanta, ci si sposta in direzione dei valori audiotattili [manifestando cioè un approccio non volto alla scrittura aprioristica, bensì alla prassi musicale immanente, n.d.r.]. Ad esemprio [Il trombettista] Clifford Brown guardava la rivalutazione del vibrato e la scioltezza e morbidezza del fraseggio, con una resa però più aperta e franca. […] L’accompagnamento, di conseguenza, si fa più terragno e il percussionismo di Blakey, ad esempio, diventa più potente, pressante e consapevole delle tradizioni africane […]. Il clima del gruppo hard-bop è concitato e diretto con criteri direttamente dipendenti dal Principio audiotattile: essenzialità espressiva, con temi, per lo più all’unisono e scarsamente mediati da attitudine scritturale d’arrangiamento*.

Meglio di qualsiasi nostro panegirico sono le parole di un musicologo autorevole a spiegare lo stile in questione; Caporaletti, infatti, così continua:

Noi riteniamo, in realtà, che all’interno dell’hard-bop si rivelino alcuni snodi centrali per gli sviluppi futuri dell’improvvisazione jazz. […] Nella nuova declinazione i fraseggi venivano costruiti su strutture cadenzali armoniche concatenate tra loro, intensificate e moltiplicate rispetto agli standard boppistici: anzi, i brani erano innanzi tutto imbastiti su un’armatura di cadenze II°-V° su vari gradi naturali e alterati, predisposta artatamente in vista dell’elaborazione dell’assolo**.

Ad onore dell’obiettività riportiamo anche una riflessione del grande scrittore e saggista Leroi Jones, che per anni si è impegnato per la causa dei neri d’America; al proposito egli sostiene che:

Gli hardbopper cercarono di rivitalizzare il jazz, ma non si spinsero abbastanza in là; persero di vista le idee importanti che c’erano da imparare dal bebop e credettero di poter sostituire a un’autentica freschezza ritmica e melodica un timbro più ampio e degli accenti quasi gospel. […] Di fronte ai più noti complessi hard-bop si ha l’impressione di trovarsi solo di fronte a uno stile dietro cui non c’è nessuna profondità d’emozione, nessun reale impegno espressivo. […] L’impulso iniziale che portò alla nascita dell’hard-bop è più profondo degli eccessi che produsse; fu tanto un moto della psiche nera quanto lo era stato lo spostamento verso il Nord agli inizi del secolo***.

E’ ovvio che il giudizio non certo lusinghiero che dà Jones all’hard-bop è dovuto al contesto storico nel quale scrive (gli anni Sessanta), carico di rivolgimenti sociali per un’America tormentata dai suoi stessi fantasmi. Agli occhi “arrabbiati” di Jones quella corrente musicale deve essere sembrata più apparente che reale, proprio perché condizionata dall’establishment discografico bianco. Ma oggi, ad una più giusta distanza storica, possiamo certamente condividere il giudizio di un Caporaletti che non quello attento, ma spietato di un Amiri Baraka (nome musulmano di Leroi Jones).

E’ d’obbligo premettere che la trascrizione del brano in questione è stata effettuata tenendo conto delle miriadi di variabili sonore che compongono un’esecuzione jazzistica; la notazione tradizionale è infatti insufficiente perché non permette di evidenziare alcuni fattori essenziali per comprendere un determinato linguaggio musicale non “colto”. Anche solo limitandoci a trascrivere i fiati (senza addentrarci nella splendida policromia ritmica della batteria) la difficoltà fondamentale riguarda la scansione accentuativa idiolettale del linguaggio jazz-afro. Per ottemperare a un duplice scopo, quello analitico, ma anche quello pratico-performativo (chi scrive, essendo anche un “umile” musicista sul campo, ha effettuato tale trascrizione anche per eseguirla dal vivo) si è cercata una diplomatica “via di mezzo” che possa comunque soddisfare entrambi gli scopi.

Facciamo seguire, per prima cosa, la struttura generale del pezzo, che, già ad una prima occhiata, appare come una rigogliosa suite per batteria e orchestra:

INTRO 1
batteria solo
…+ 8 a tempo

INTRO 2
obbligato piano+basso+batt.
8 b.

INTRO 3
Tutti
16 + 4 coda

SOLO BATTERIA
…+ 8 b.

INTRO 4
nuovo obbligato pn+bs+bt
8 b.

HEAD
Tutti
16 (A-A)+8 (B)+8 (A)

SOLI
1 chorus tromba
1 chorus tenore
1 chorus trombone
3 chorus batteria

INTRO 4
/ / / / / / /

HEAD
Tutti

CODA
Solo batteria

INTRO 2
/ / / / / /

INTRO 3
/ / / / / /

CODA
batteria ad lib. + corona dei fiati

Gli interventi di Blakey non si limitano infatti solo ad aprire e chiudere il pezzo, ma anche a realizzare un interludio prima del tema, ben tre giri di chorus per il solo, una prima coda e una coda finale. Del resto, questa è l’impressione che si ha nell’ascoltarlo:

Il suo drumming aveva sostanza e corposità e, al tempo stesso, era in grado di conseguire anche sottili sfumature – uno dei suoi schemi più caratteristici era la pulsione avvolgente, che sviluppava una assoluta forza trascinante, tale da indurre i solisti che se ne allontanavano a frenetiche e affannose “rincorse” per mantenere il tempo musicale.

A presto con la seconda parte di questo articolo!

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* Vincenzo Caporaletti, I processi improvvisativi nella musica, LIM, Lucca, 2005, pagg. 382-384.

** Vincenzo Caporaletti, op. cit., pagg. 384-385.

*** Leroi Jones, Il popolo del blues, Shake Edizioni, Milano, 2007, pagg. 224, 225.

**** Gildo De Stefano, Jazz moderno 1940-1960, KAOS Ed., Milano, pag. 57.