Stillness blade ” Break of the second seal”, recensione
…who will descend into his deepest abyss, finding his ills and executing them
Vivono dietro ad un interessante monicker che rifila la concettualità di ossimoro, accostando la metaforica violenza della lama alla quiete, qui da interpretare come eterna. Si chiamano Stillness blade e arrivano dal Salento per questo ottimo Break of second seal (The eternal damnation), secondo sigillo della band che, dopo il primo oscuro capitolo (Misantropic Elevation), continua in questa simbolica discesa negli inferi. Il nuovo platter, edito per la Punishment18 records, ci riporta in un (altro)mondo sudicio e enigmistico, in cui l’assassino che vive nelle partiture miete vittime legando il suo modus operandi a blocchi energetici organizzati secondo filosofie orientali. Le armi differenti con cui l’omicida colpisce sono definite attraverso giochi grafici curati da Marco Hasman, che offre sin dalla cover art indizi da approfondire attraverso giochi degni di James Wan e Leigh Whannell.
Il disco ci offre, come spesso accade nel mondo estremo del metal, un buon tecnicismo e stimolazioni che mai si fossilizzano solo sul death da cui provengono. Stilemi e influssi viaggiano veloci nell’intento di trascinarci dentro una parallela realtà grondante e violenta, ma mai scontata come l’incipit che anticipa ogni traccia nell’intento di fornirci gustosi indizi ambientali di un incubo che sta evolvendosi.
Ad aprire l’angoscia sonica è una fosca e mefistofelica aria che, come inquiete note d’archi, stiletta colpi di lama su di un corpo inerte, vittima di un incontrollato dolore. Proprio quando le lamiere sonore si ergono su di un buon blast beat, le note arrivano a raccontare l’interminabile discesa verso quel dolore di Sorrow descent.
Path of damnation- Break of the second seal infatti arriva a proporre una buona derivazione death, che vira in un alterno percorso verso piacevoli estremizzazioni dalle diverse sfumature. Il poetico e narrativo riff definisce poi le linee di chiusura che portano ad improvvise e schizzofreniche inversioni di marcia. In tutto questo si interseca il convincente e granuloso growl di MAx Schito che in fade out lascia il posto ad una diluita e cupa melodia, maturata con Napalm Rain. Il meraviglioso dialogo tra la sei corde e le pelli si rifila su sensazioni Six feet under, offrendo uno dei migliori brani del full leght, grazie all’andamento teatrale che propone violenza espressiva e una rara polvere incendiaria immersa nella disperazione.
Con Chains of damnation i passi calmi e impassibili del killer affrontano le torture imposte e le catene dell’imminente dannazione, raccontata da un brano pervaso di sangue e infinita perdizione, forte di un ‘ottimo lavoro al basso, essenziale nell’economia discorsiva proposta dalla band e poco importa se meno a fuoco appare il solo interposto tra le strofe che molto devono alle prime generazioni thrash.
Con Black Aura shadow torniamo sui passi della suspance filmica definita da un proto doom che in pochi secondi si evolve in un’esplosione sensoriale ciclica ed ipnotica, in cui le lame arrivano a tagliare l’anima dell’ascoltatore, lasciando la sua serenità nell’oblio grazie in brani come Sadistic flash pleasure eMaterialistic suffocation. Quest’ultima definisce una incancrenimento di suoni che tolgono il respiro con i suoi accenni industriali e black che attraversano brevi overlay piacevoli per originalità compositiva e ben amalgamati con il resto della scenografia. Un ottimo esempio di coraggio musicale che ben si appoggia agli sviluppi di Ascension of seven blades che chiude un disco arrangiato ottimamente e perfettamente in gradi di risalire il fiume del metal estremo, raccogliendo sensazioni vissute per poi farle proprie, senza perdere una ben definita personalità artistica.