Stella Diana “Gemini”, recensione
Il nostro campo d’azione è la musica che non ammicca a nessun genere, non è una scelta ma semplicemente una necessità e una sincera attitudine.
Questa frase appare in bella mostra all’interno del web site della Happy/mopy records, label partenopea che, come dicono di sé, non disdegna nessun linguaggio. Sotto l’egida dell’ossimoro mancato, sono approdati i Diana Stella, progetto musicale nato dagli ideali di Dario Torre e Giacomo Salzano, rispettivamente voce e basso del quartetto complementato da Raffaele Bocchetti alle chitarre e Massimo Del Pezzo alla batteria.
La band, dopo una serie di inevitabili assestamenti arriva alle stampe con Gemini, full lenght in cui le riserve superficiali e prevenute riferite ad un moniker non proprio affascinate, si sgretolano sotto un groove granitico e genuino, per un disco che tanto assomiglia alla voglia di emergere delle band 90s dell’underground italico. Lo sguardo verso in nostro vicino passato è da intendersi però non tanto come una vacua emulazione, ma piuttosto come una sorta di intellettiva citazione. Tanto è vero che la band sembra riuscire nell’intento di introiettare quel periodo storico-musicale, teorizzando le proprie idee legate più o meno indirettamente all’ossessive rock e allo shoegaze.
Il disco, sin dal primo ascolto, riesce a trascinarci con sé, grazie ad un groove piacevole, tra i giocosi intenti di Happy Song e l’iper compulsività compositiva di Paul Breitner, da cui emergono ritmi tirati e resi elastici da testi ermetici e metaforici, per una sintesi di intenti che rimane ancorata all’essere della band. Brani come Shohet, Gli Eterni e Kingdom Hospital richiamano alla mente i primi Marlene Kuntz, grazie anche buoni riff, che a tratti evolvono e disorientano attraverso un potere ipnotizzante ed una forza centripeta di buona caratura. Non mancano le schizoidi introiezioni di Ra, in cui tra stop and go si auto definisce come una risalita, partita dai poliedrici cambi di influssi, talvolta disturbanti e altre volte accoglienti.
Un disco che per certi versi incanta con il suo naturistico senso sonoro che diviene maggiormente riflessivo sul finire di Bill Carson, in cui appaiono buona parte dei clichè alternative, tra testi ricercati e un modus operandi non banale, ma neppure troppo ardito
Insomma un ottimo disco grezzo e genuino che porta con sé la vitale necessità di essere condiviso per poter sopravvivere ai molti, grazie ad un alternative music che ci obbliga a dar credito a chi li ha definiti gli Arab Strap italiani.
TRacklist
Shohet
Gli eterni
Mira
Kingdom hospital
Caulfield
Paul Breitner
Ra
Happy Song
Bill Carson