Stefano Ronchi I’m ready, recensione

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Chi è Stefano Rochi? Una delle migliori chitarre appartenenti alla nuova generazione di musicisti in blues. Arriva dalla Superba e dopo un percorso professionale che lo ha portato ad importanti collaborazioni artistiche, giunge alla sua nuova fatica sonora I’m ready, disco promosso dalla AlmaLive, creazione di Zibba, autore che i nostri lettori hanno già potuto apprezzare in questi ultimi anni.

Il disco 100% pure blues, si avvale di una lunga lista di musicisti in veste di guest star, pronti ad impreziosire le strutture sonore ideate dall’anima jazz and blues nascosta dietro alla chitarra dedita a quelle blue note liberamente ispirate alle sonorità di Chicago, qui intarsiate tra gentilezze slide e carattere dobro.

L’intro d’apertura, nella sua breve e cardinale durata, sembra voler essere un attento invito per l’ascoltatore sulla soglia, chiamato ad entrare nel mondo del roots blues, ben definito dalla perfetta The end of the road, traccia che farà innamorare chi da sempre apprezza le forme antiche del blues. La composizione, introdotta all’ascolto da un’impolverata sensazione vintage, offre una voce ondulante che si abbraccia alle scale blues. Una forma a grana grossa che introduce un classic taste alquanto piacevole, pronto a scorre dalle vene nobili di Ronchi, attraverso una partitura attenta ed una caratteristica modalità di cantato, i cui cromatismi vocali appaiono vicini a Andrew Strong.

Le strade sonore si fanno poi più melanconiche e velate con Trouble in mind, impreziosita dalla voce femminea di Meri Maroutian che, con il suo calore, riesce a contenere i riverberi di un sax (forse) troppo invasivo, ma in grado di alimentare il sapore retrò da cui fuoriescono il dolce bacchettio sulle pelli e una trainante chitarra, pronta a portarci verso la voglia di fuggire dal quotidiano per lasciarsi sulle antiche note. Il viaggio prosegue con il cripto-boogie di Wait a minute, raccontato dalle note basse abbracciate all’ hammond di Marcello Picchioni e al violino di Fabio Biale, in qualità di attori narranti per una traccia deliziosamente strumentale.

L’ottimo arrangiamento che pervade tutta l’opera nova di Ronchi, si manifesta meno a fuoco sugli allegoriche clappig hand e sullo svilluppo armonico di Down in the river, per la quale appare necessario un plurimo ascolto, nel tentativo di poterne percepire le differenti sfumature, già chiare nella raffinata e gentile 5 O’clock Blues e nell’aria Knofler che si erge dagli spazi chitarristici di Ain’t no love in the heart of the city e dala convincente Born under a bad sign, che con i suoi sentori Cocker chiude un album profondamente reale.