Somewhere Under Wonderland – Counting Crows – recensione cd
I Counting Crows sono una band profondamente americana. Il loro suono, la loro storia e le loro canzoni trasudano di America da tutti i pori. Sin dal loro album d’esordio (lo splendido e forse inarrivabile “August and everything after”), questa loro caratteristica è apparsa evidente e, personalmente, la ritengo uno dei loro marchi di fabbrica più affascinanti. Altro elemento che li caratterizza è il loro legame con la tradizione musicale, con la storia stessa direi, del loro paese, tanto che spesso sono stati idealmente associati a gruppi eterni come The Band o Greatful Dead, soprattutto per la loro propensione a una certa coralità, pur avendo al loro interno un leader carismatico come Adam Duritz, che fa da contrappeso a tale tendenza.
L’estro straripante del front man, nonché la sua grande sensibilità, con un approccio quasi terapeutico verso la scrittura delle canzoni, mi hanno sempre attratto ed ero quindi curioso, dopo ben 6 anni dal loro ultimo album di inediti, di capire a che punto fosse arrivato del proprio percorso di analisi introspettiva.
Rispetto al passato, ciò che emerge già ad un primo ascolto distratto di questo “Somewhere under wonderland”, ancora prima di analizzare con attenzione i testi, è una certa “festosità” che caratterizza la maggior parte dei pezzi e di cui forse “Earthquake driver” rappresenta la portabandiera più radiofonica e accattivante. Ma anche le melodie sono quasi tutte immediate e scorrono via veloci, senza fronzoli, lasciando sempre il segno come tutti i fan dei Crows speravano di poter presto riascoltare. Sembra, in poche parole, che molti dei fantasmi che hanno sempre inseguito il nostro Adam siano stati esorcizzati, per lasciare spazio ad una maggiore apertura verso la gioia di vivere.
Musicalmente il ventaglio di stili proposti è piuttosto vario, come ci hanno sempre abituati, spaziando da una base generalmente folk, sulla quale si innestano sovente elementi rock (le energiche “Scarecrow” e “John Appleseed’s lament”), altre volte più country (l’affascinante uptempo “Cover up the sun”), ma senza risparmiarsi, qua e là, qualche lieve spennellata pop (“Elvis went to Hollywood”) che, almeno dai tempi del bellissimo “Hard Candy”, non manca mai. Per quanto riguarda invece i brani che preferisco, cito la tiratissima “Dislocation”, già un instant classic, così come le sole due ballad del disco: la semi acustica “God of oceans tide” (aspettavo una loro canzone così, da non so più quanti anni) e la finale “Possiblity days” (da sogno il piano di Charlie Gillingham). Imperdibili.
Lascio per ultima l’epica “Palisades park”, singolo apripista piazzato all’inizio dell’album (vellutato il suono della tromba che fa da intro) e forse il più lungo di sempre della band. Stilisticamente è ciò che somiglia di più al loro primo mitico album, citato all’inizio, per quelle sue melodie sghembe ed il canto praticamente parlato, in alcune parti, di Duritz. Il video che lo accompagna poi è praticamente un film, nel quale due amici che crescono insieme si perdono per strada nel corso della vita, facendo esperienze di dolore e sofferenza. Vi consiglio di vederlo tutto di un fiato, ascoltando la musica con le cuffie. Eccezionale.
Insomma, i corvi americani sono tornati, puntando tutto sulla qualità (solo 9 brani, ma tutti belli) e, a chi li avesse già dati per spacciati, posso assicurare che sono ancora vivi e vegeti. Provare (leggasi: ascoltare) per credere.