Soilwork – The living infinite, recensione.
Siete un appassionato di musica che ascolta di tutto da 25 anni.
Nel corso del tempo poco o nulla vi ha stupito.
Trascorsa l’epoca d’oro del metal, le uscite si sono susseguite senza picchi particolari.
Poi arriva il 2002.
Arriva Natural born chaos dei Soilwork e si apre un mondo. Il disco perfetto. Tecnica, melodia, potenza e un songwriting sopra le righe tutto racchiuso in un unico gruppo.
Una ventata d’aria fresca e genuina. Ma solo una ventata. I dischi seguenti del combo non sono all’altezza. Questo fino al 2013, fino a Living infinite.
Living infinite stupisce e lascia disorientati. La genialità di Devin Townsend, la potenza dei Testament di The gathering, la tecnica degli In flames. Insomma, una summa di tutto ciò che di ottimo è stato prodotto nella musica estrema unito ad un impeccabile gusto per la melodia. Questo è il nuovo disco dei Soilwork. Un’opera imponente e pretenziosa, l’album è infatti doppio. Il primo album doppio del death melodico. Venti tracce che ridefiniscono i confini dello stesso genere non dimenticando i precursori e il marchio di fabbrica dei nostri. Il gruppo mette subito le cose in chiaro fin dal primo pezzo. Spectrum Of Eternity è una sferzata in pieno volto. Una song death senza cali, violenta e diretta ma che non trascura la melodia. L’ombra di Townsend aleggia per tutta la durata dell’album. Così come quella degli Opeth di Still life.
Living infinite riesce a lasciare l’ascoltatore in perenne concentrazione nell’attesa della scoperta di cosa accadrà nelle diverse tracce. Il sound, pur rimanendo compatto e potente, lascia spazio ad aperture acustiche e ritornelli “cantabili”. Un plauso particolare va a Björn “Speed” Strid in eccellente forma che passa dallo scream tipico del gruppo a refrain melodici passando per il growl.
L’abbandono della band da parte del chitarrista Peter Wichers, cofondatore del gruppo, non ne ha inficiato la vena compositiva. Resta forte e costante e, forse, maggiormente sviluppata che negli album precedenti, l’aspetto progressivo delle composizioni, tutte intricate e non di immediata acquisizione.
Da sottolineare il riffing più che efficace e mai scontato delle chitarre che non si fermano un attimo. I solo seguono il Soilwork style, ossia non velocissimi, di grande efficacia e gusto. Ancora una nota va volta al batterista Dirk Verbeuren, vero motore di un sound monolitico. Il nostro non si risparmia in nessun momento. Triplettate di doppia cassa, tappeti black, accenti su ride e rullante fanno del suo stile quanto di più azzeccato per il gruppo. In ultimo e, anche questo ha senza dubbio contribuito a creare il sound, il disco è stato prodotto da Jens Bogren , produttore anche di Opeth, Amon Amarth, Bloodbath.
Fare un track by track è superfluo.
Ogni traccia va ascoltata e digerita. Un disco da avere, gustare mille volte. Forse un disco per molti ma non per tutti.