Slash & The Conspirators ft. Myles Kennedy – Concerto Roma – 26 ottobre 2012
In attesa dell’arrivo di Slash e la sua band, nel parterre del Palalottomatica si respira un’aria nostalgica, a giudicare dalle magliette che girano, quasi tutte decorate con fiori rossi e armi da fuoco (non credo di dover specificare quali) e dall’età, non proprio giovanissima, della maggior parte della gente presente, compreso il sottoscritto.
Alle 9.30, in realtà un po’ in ritardo rispetto all’orario ufficiale, si spengono le luci e un’enfatica voce in stile Vincent Price annuncia l’entrata del “Capellone col cappello”. L’ambiente si scalda e quando la chioma nera dell’ex chitarrista dei Guns entra con la sua bella maglietta smanicata color rosso carminio siamo già all’esaltazione generale.
Il set comincia con “Halo”, un pezzo dell’ultimo album in studio che dà il titolo al tour, che evidenzia subito la notevole estensione vocale del cantante Myles Kennedy (già frontman degli Alter Bridge). La vera scintilla che accende l’incendio, tuttavia, viene scoccata subito dopo, dalla successiva ed inossidabile “Nightrain”, pescata da quel pozzo senza fondo di perle rock intitolato “Appetite for destruction” del 1987 e che, a fine serata, uscirà letteralmente saccheggiato.
Molto belle sia la coinvolgente “Back from Cali”, dal suo primo album omonimo, che un’appassionata versione di “Civil war” da “Use your illusion II” ma, al di là di tutto, quello che risulta chiaro a tutti è uno Slash in serata di grazia e capace di tenere su la comitiva dilatando, a modo suo, praticamente ogni brano. In questo senso il clou a mio avviso lo raggiunge a metà concerto con “Rocket queen” nel cuore della quale si diletta con uno dei i suoi assoli, deliziando un pubblico romano sudigiri.
Il momento della prima power ballad arriva con “Far and away”, più che dignitosa cugina di vecchie glorie come “November rain” e “Don’t cry” – che purtroppo mancheranno all’appello – dopo di che Kennedy va a riprender fiato cedendo il microfono al bassista Todd Kerns per un paio di brani. Il primo, “We’re all gonna die”, è fedele alla versione in studio che era stata affidata a quell’animale selvaggio di Iggy Pop, mentre il secondo è un’acida e indiavolata versione di “Out to get me” (brano minore e un po’ sottovalutato del succitato capolavoro gunsiano).
Ci si avvia al gran finale con una tiratissima “Anastasia”, forse la più intrigante di Apocalyptic Love, anticipata dall’ormai mitico assolo de “Il padrino” e seguita dalla canzone più attesa dal popolo sovrano: “Sweet child of mine”. Centinaia di teste scatenate, saltanti e gaudenti rendono omaggio a quel riff che si è ormai ritagliato uno stanzino di tutto rispetto nell’attico della storia della musica hard rock.
Il concerto si chiude con la trascinante “Slither” dallo splendido “Contraband” dei Velvet Revolver nel cui intro Myles Kennedy presenta la band, osannata da un meritato applauso e, nel caso di Slash, con l’aggiunta di un lungo e ascensionale “ohhhhh… ohhhhh”, molto in uso nelle curve dello Stadio Olimpico, prima dei calci piazzati dei locali beniamini. Il capellone apprezza molto la dedica e ricambia tornando nell’arena a torso nudo per il bis, con un’esplosiva “Welcome to the jungle”, quasi mai eseguita durante questo tour europeo (al posto delle più usuali “Fall to pieces” o “By the sword”), ancora una volta eseguita da Kerns.
L’ultimissimo pezzo, neanche a dirlo, non poteva che essere l’immancabile “Paradise city” che già, ai tempi di Axl Rose e compagni, riusciva a sollevare folle oceaniche negli stadi di tutto il mondo.
Resta impressa nella memoria una bella serata di rock n’roll eseguito da interpreti di alto livello, con una punta di diamante rappresentata da uno Slash in grande spolvero. Unica nota dolente: l’acustica del Palazzetto ma, oramai, romani e non si sono purtroppo abituati ed il tutto era già stato ampiamente messo in preventivo.