Sixthminor “Wireframe”, recensione

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The collective formed by Megaphone is based upon an idealistic concept of property, there is no leader but an equal distribution of roles for the managing of the label. This union reflects the idea of “united we stand, divided we fall” and gives its members the opportunity to work harder on what they like the most. aims

Questo è il manifesto dogmatico della Megaphone Records, label che annovera nel proprio rooster i Sixthminor, duo altronico composto da Andrea Gallo e Renato Longobardi, arrivati a questo debut album promosso dalla Unomundo. Il combo partenopeo arriva all’ esordio con l’interessante Wireframe, full lenght definito da un viatico sonoro assestabile tra post rock, elettronica e sviluppi ambient derivati da sperimentalismi (forse azzardati) che portano al fianco di chitarra, basso e batteria non solo la drum machine, ma anche l’uso sperimentale di algoritmi e vts. Il disco dunque, pur partendo da partiture attente, arriva a rivisitare il mondo di Steinberg alla luce di diversificati punti di partenza, che portano le sensazioni musicali ad incontri inusuali privi di reali confini.

Ad introdurre il disco è Eser, soffuso post rock che, con il suo lieve approccio, accresce il proprio ego attraverso sonorità aggiuntive. Note intrise di elettronica evidente, poste all’interno di una mescolanza tribalistico-espressivo e sintetici giochi ipnotici, pronti ad graduale ampliarsi dell’orizzonte visivo. Una docile ridondanza musicale che in Blackwood si sposa con il sapore industrial, per poi dirigersi verso spezie minimali e scarnificate nel suo essere futuristico ed inquieto.
Il silente avvio di Frozen si adopera poi per la costruzione di un impianto ambient, qui diluito verso una narrazione eterea che sembra avvalersi di un rimando al concetto di dubstep, in cui sono collocati sparuti sampler, pronti a deformarsi in un aumento di sonorità elettronic, tra sentori disturbanti e narrazione decomposta. La tensione sperimentale evidenzia buoni risultati con Etif e con la desertica Last day on earth, i cui suoni lontani appaiono costruiti attorno alla ricerca di sensazioni osservanti e vitali di un respiro che accompagna le note atte a bruciare verso un esplosione raccontata da sonorità brulicanti.

Il disco nel suo complesso, pur non mostrando nulla di particolarmente innovativo, sembra dovere qualcosa alla psichedelia sperimentale così come accade in Hexagone, in cui il mondo techno(logico) ci trascina verso sentori Prodigy, in favore di un groove interessante e diretto, calmierato poi dall’esecuzione di Greyhues, grazie alle cui sensazioni si distendono accenni umoristici e andamenti lineari di un approccio electronoise ben controllato dalla creatività del combo.