Simone Agostini – Green. Recensione.
Simone Agostini non è di per sé catalogabile all’interno della rubrica “Voci Nuove” perché, il concetto di partenza, rappresenterebbe un buffo ossimoro. Infatti, da un lato è vero che Simone appartiene ancora agli artisti emergenti, immerso in pieno nella bolla underground, d’altro canto però il compositore romano non usa la voce per le sue composizioni, in quanto dolci figlie del finger picking di stampo classico.
Le felici esperienze all’ Acousticway 2001 e 2007, a Frentanacustica 2006, a Mo Bitter Music e nella Settimana Mozartiana 2006 e 2007, sono di certo state esperienze importanti nella crescita dell’autore, già apparso in milioni di case attraverso la colonna sonora per lo spot televisivo “Un buco nel muro”, in cui figurano,come testimonials Totti e Maldini.
Dopo qualche anno di attesa, finalmente eccoci a paralare del suo primo full lenght intitolato Green che, con il suo fingerstyle, tra un basso alternato e un arpeggio, confeziona dieci tracce acustiche di buona qualità.
Ovviamente chi accusa dischi come quello di Simone Agostini di tediosa ripetitività, non possiede l’orecchio fine per godere dei semplici passaggi che le note raccontano. Ovviamente ogni stile assomiglia a se stesso, ma solo uno sguardo disattento non percepirà mai quelle sfumature che si nascondono dietro ad una partitura.
“Green”, l’album del felice esordio, si apre con una punta di diamante chiamata ”L’enchantement du Phare”, titolo che per certi versi richiama la forma di narrazione Thierseniano, ma che musicalmente ripropone alcune introspettive fogge alternative di Maximilian Hacker ed Mr. Harcourt, rivedute attraverso un maggior classicismo. I titoli delle tracce sembrano voler trapelare la voglia di cantautorizzarsi e di dare maggior raffinatezza alla composizione, attraverso l’aspetto linguistico, che si mescola a dolcezza e riflessione, come nella delicata e dischiusa “Waiting for may” e nella divertita e favolistica “Village of gnomes”.
Non mancano sonorità aperte e maggiormente ariose e serene, che ben si sposano con i ricordi d’infanzia di “Childhood memories”, in cui la sorridente melanconia del violoncello di Peppino Pezzulo e il sicuro andamento del piano forte di Sandro Paciocco, ricreano uno tra i brani migliori di un album, capace di toccare altresì ispirazioni country con “A 25” e addirittura viking-north con “Brigante se More”, brano che sarebbe piaciuto persino al compianto Quorthon, per il suo animo magico e celtico.
Pur non disprezzando la decisione integralista del non uso della voce, ascoltando “El llanto de Luna”, sembra emergere una mancanza vocale, lasciando così il brano incompleto e lacunoso, che forse solo una cantato di Carmen Consoli avrebbe reso prefetto.
Insomma un disco che ha il pregio di raccontare come in un testo filmico muto la serenità, i viaggi e la vita di un autore giovane e promettente che, se rimarrà ancorato alla semplice realtà, dando uno sguardo all’innovazione, potrebbe raggiungere obiettivi ancor più alti di quelli già ottenuti o anelati.