Selfmachine “Broadcast your identity”, recensione
Un digipack a sfondo bianco al cui centro capeggia un cuore positronico che, in preda ad un rigurgito di surrealismo, arriva a fondere colori kitch, tecnologia e proiezione futuristica. Un cuore pulsante in cui jack, prese usb, valvole e cavi donano al centro emozionale della rappresentazione grafica un curioso e destabilizzante incipit. All’interno del muscolo cardiaco gli altoparlanti espettorano suoni appesantiti dal groove avvolgente e per certi versi easy listening. Una “moderna” forma di metal che trova i propri semi germinali nell’Olanda sotterranea, pronta alla ribalta grazie alla distribuzione attenta della Worm Hole Death.
Questo nuovo Broadcast your identity sembra voler racchiudere nel proprio superego una mescolanza di sonorità che giungono a sviluppare percorsi d’impatto, mediante striature prog, post e nu, al servizio di una linea vocale diversificata, che non disdegna risvolti alternativi. Una sporcizia esecutiva ed una buona pulizia tecnica paiono essere i due fulcri espressivi di questo platter, pronto a portare con se un’eccessiva lunghezza, (però) ben bilanciata da idee e approcci diversificati.
A raccogliere l’onere della partenza è la fredda sonorità di Breathe to aspire, incipit curato, che pur percorrendo un’impronta granulosa dagli sviluppi slipktonotiani, non arriva a piegarsi ad inutili e ridondanti citazionismi. La traccia introduttiva, spinta e convincente, si inerpica su suoni stoppati tra pulizia esecutiva e narrazione vocale, in grado di offrire (in Corey Taylor style) uno spettro pulito al servizio di liriche accolte dall’ottimo e profondo growling. Se poi brani come Miles away e Massive luxury overdose faticano ad emergere, è con l’ottima esecuzione di Void che la band offre il proprio lato espressivo. L’impatto alternativo della traccia destina al growl un impulso distruttivo, in grado di avvolgere l’ascoltatore in un inevitabile headbanging, tra additional vocals e strutture anni’90.
Sul medesimo orizzonte espressivo annoveriamo la convincente Out of depth, veloce e rabbiosa quanto la sezione ritmica, abile nel dare spazio ad inattesi approcci metal core, che ben si allineano alla grezza e battente struttura di Caught in a loop, opaca e perfetta. A chiudere l’album l’eccessiva diluizione di Closing statement e la straordinaria Becoming the lie , osservativa ed intimista; una narrazione che, pur sviluppando approcci easy, riesce nell’immediato a restituire un’espressività bowiana (!), non troppo lontana dall’heavy metal italiano degli anni’80.
Un disco interessante che sarà apprezzato dagli amanti del genere, nonostante la perfettibilità del booklet.