Rock light dust star – Jamiroquai. Recensione
Sinceramente ho sempre considerato i Jamiroquai una band, per così dire, più da singolo che da album, nel senso che di solito (salvo qualche raro caso come A Funk Odissey e Travelin’ without moving) in un loro intero LP mi piacevano moltissimo solo alcuni pezzi, ma al resto proprio non riuscivo a concedere un ascolto continuo nel tempo.
Sarà per questo, probabilmente, che il loro best of, High times, nonostante una personale allergia ai greatest hits, lo considero una perla preziosa nella mia collezione, con le sue canzoni così squisitamente funky/dance (Canned heat, Space cowboy, Sunny day in sunny june, giusto per citarne tre strepitose) da far smuovere anche il più pigro dei ballerini.
Tutto ciò premesso, nell’approcciare questo Rock light dust star, mi attendevo di dovermi ancora una volta limitare ad esaltarne le sole hits, bollandolo quindi come full of fillers e, invece, è con grande sorpresa che devo ammettere che questa volta il nostro Jay Kay (voce, leader e vero deus ex machina della combriccola) ha fatto veramente centro.
Il nuovo cd infatti risulta qualitativamente granitico dall’inizio alla fine e non presenta praticamente punti deboli.
La festa comincia con la title track ed è subito la melodia a colpire, con le ormai consuete metafore spaziali a far da padrone (…I’m the man on the moon), musicalmente accompagnate da una chitarra elettrica finalmente ben in evidenza (praticamente l’unica novità nel suono della band in questo nuvo cd).
Il groove di White knuckle ride e della successiva Smoke and mirrors è decisamente all’altezza della tradizione della casa, ma è il sax della seconda, che lascia un segno indelebile, a meritarsi un bell’8 in pagella.
L’intro di basso di All good in the hood, invece, rievoca facilmente quello stranoto di Another one bites the dust dei Queen, scelta forse sia per il possibile e sottile gioco (di parole) col titolo dell’album, sia perché fu il pezzo che meglio rappresentò la sintesi fra il rock e la disco all’inizio dei mitici anni 80 (e che qui è forse l’obiettivo non dichiarato, perseguito anche in pezzi come Hurtin’).
Il pezzo più accattivante, a mio avviso, è She’s a fast persuader basata su un ritmo uptempo vertiginoso e avvolgente che ha l’effetto della colla a presa rapida. Non aggiungo altro, se non che l’ultima volta che sono rimasto folgorato allo stesso modo, al primo ascolto, da un pezzo dance è stato con Jump di Madonna …roba rara e sopraffina insomma.
Una parola va spesa anche per il primo singolo, Blue Skies, ballata dolce dal ritornello semplice e orecchiabile. Il testo parla di fuga dalla gente che dice solo cattiverie, che non ha fiducia in te e che quindi non vale la pena neanche ascoltare ed invita quindi a fregarsene continuando a vivere sereni la propria vita, sempre e comunque, godendosi solo “il cielo azzurro e l’arcobaleno”. Bello, tra l’altro anche il video.
Facendo il punto su quanto detto fin ora, non vediamo ragioni per cui un vecchio fan di Jamiroquai debba perdersi le loro nuove gesta danzerecce, né tanto meno per cui uno nuovo debba rinunciare a ballare spensierato sulle note di Rock light dust star, o magari a spararsele in macchina di notte e col volume a palla.