Robert Plant – Band of Joy recensione.
Robert Plant irrompe nuovamente nella scena musicale con il terzo cover album chiamato “Band of Joy”.
L’origine del nome risale al 1967, quando Plant e John Boham si esibivano nei pressi di Birmingham suonando blues e soul. La band, chiamata per l’appunto Band of Joy, era una dei tanti esponenti del british blues che si diffusero alla fine degli anni Sessanta.
Robert Plant decide di ripartire dal blues e il country anni ’50, proponendo la fortunata formula collaudata già in “Raising Sand”: una controparte femminile, in questo caso la cantante country Patty Griffin, e un virtuoso accompagnatore musicale, il chitarrista Buddy Miller.
Miller ha impregnato le tracce di un suono ruvido e graffiante, in perfetto contrasto con la voce di Plant, vibrante di una inaspettata gioia. Si passa da influenze dell’R&B al rockabilly, dal soul ad antiche ballate . Oltre a Miller sono presenti anche Byron House, Marco Giovino e il polistrumentista Darrell Scott al mandolino, fisarmonica e banjo.
Il disco si apre con la cover degli ispano-americani Los Lobos, “Angel Dance”. La canzone perde la sua anima rock per addentrarsi in territori etnico-tribali grazie all’accompagnamento di banjo e percussioni. Non è che l’inizio di un viaggio tra brani più e meno famosi della scena country-blues, alcuni risalenti al Diciannovesimo secolo – “Cindy, I’ll Marry You One Day” e “Satan, Your Kingdom Must Come Down” di Uncle Tupero.
Si prosegue con “House of Cards” di Richard Thompson e il blues rurale di “Central-O-Nine” per poi lasciarsi cullare dalla coppia Plant-Griffin in “Silver Ride”.
Degni di nota le reminiscenze country di “You Can’t Buy My Love” di Barbara Lynn e “Falling In Love Again” dei Kelly Bros, che rievoca il gospel delle province americane degli anni ’50 grazie al magistrale gioco di voci.
Ottimo brano è “Monkey”, definita pezzo di tipo country psichedelico giocato sulle voci della Griffin e Plant ed un ritmo ipnotico.
“Harms Swift Away” richiama l’incontro del folk degli anni ’60 e del post rock, tanto che è opera di un songwriter moderno, Townes Van Zandt.
Il disco si conclude con una interessante parentesi, la messa in musica di una poesie della seconda metà dell’800, “The King’s Ray” di Theodore Tilton, diventata Even This Shall Pass Away. A rompere la magia l’uso eccessivo delle percussioni, quasi a sovrastare le parole declamate da Plant.
Nel suo complesso “Band of Joy” si presenta come una fucina di idee e sperimentazioni in grado di fondere doo woop anni Sessanta, R&B e rock classico americano in una insolita armonia di suoni. Una carrellata di pezzi che, come una moderna macchina del tempo, trasportano indietro nel tempo fino alle più profonde radici del blues.