Ricostruire – Giacomo Lariccia – Recensione CD
Ho atteso questo disco di Giacomo Lariccia per circa un anno e precisamente da quando andai a un suo concerto, nel centro di Bruxelles, ed ebbi l’occasione di ascoltare dal vivo il meglio del suo terzo lavoro intitolato “Sempre Avanti”. Diversi pezzi di quel disco del cantautore romano, da anni trapiantato nella Capitale d’Europa, erano legati da un tema comune forte e molto sentito soprattutto fra gli italiani in Belgio. Si tratta dell’esperienza degli emigranti che vennero qui a scavare nelle miniere di carbone, verso la metà del secolo scorso, con esiti a volte fatali come nel caso della nota tragedia di Marcinel. C’era però anche tanta ironia, sparsa qua e là, come nel singolo “Piuttosto” e “Il primo capello bianco”, tanto che nella mia recensione di quell’evento, pubblicata sul mio blog personale, avevo fatto espliciti riferimenti all’approccio di Max Gazzè per l’aspetto più giocoso e a quello di Niccolò Fabi e Francesco De Gregori, per il lato più intimo.
Con il nuovo “Riscostruire”, Lariccia prosegue a passo deciso verso la piena maturità artistica lasciando da parte, almeno per ora, il primo dei succitati percorsi. Il risultato è una manciata di splendide canzoni che mettono al centro la fragilità umana, sotto i suoi diversi aspetti. Pur cambiando di volta in volta il mood e il ritmo – con una leggera prevalenza delle ballate – le storie toccano vari argomenti delicati, tra i quali anche quello dei rastrellamenti degli ebrei nel ghetto di Roma (“Celeste”), affrontato in maniera molto originale.
Quello che risulta evidente sin dal primo ascolto è la cura dei particolari, la qualità delle melodie, l’essenzialità della produzione, dosata in ogni passaggio, ma anche la dolcezza della voce dell’autore.
Così, l’apertura autunnale di “Ottobre”, inizialmente solo acustica, marca subito il territorio e fa capire che in caso qualcuno stesse cercando banalità o superficialità gli converrà stare alla larga da questo album. Il tema in questo caso è l’amore (praticamente assente nel disco precedente) e il pericolo che in qualche modo il metaforico cielo di un rapporto possa essere oscurato dagli stessi protagonisti. Questo perché i rapporti sopravvivono e resistono solo con una costante volontà di portarli avanti e farli evolvere.
L’indovinata title track, leggermente più energica, offre uno sguardo sulla nostra vita, così piena d’incertezze, mentre l’intimità di cui abbiamo detto emerge in maniera direi deliziosa in “La mano di un vecchio”, dove la tenerezza del rapporto generazionale fra un anziano ed un bambino è rappresentata da un dito di una mano che si allunga verso quella del piccolo, diventando l’immagine toccante di una staffetta, come un passaggio di un testimone. L’episodio più radiofonico, tra l’altro fra i più belli in assoluto, è l’up-tempo Senza farci del male nella quale il protagonista prende atto che amare qualcuno non significa, in fin dei conti, doversi in qualche modo snaturare mentre essere sé stessi è l’unico modo di farlo, anche se la forza del sentimento in qualche modo ci fa desiderare di essere come l’altro ci vorrebbe.
Piazzata verso la fine dell’album, “Luce” lascia uno spazio più importante alla sezione ritmica (affidata a Marco e Fabio Locurcio) e ai riff di chitarra elettrica dando in tal modo una bella carica all’ascoltatore, prima di lasciare il campo alla finale “Solo una canzone”, che in meno di 2 minuti sintetizza, con una carezza, il talento di questo artista. Chiudo con una leggera punta di polemica, evidenziando come Lariccia a mio modesto avviso superi su tutta la linea la maggior parte dei suoi colleghi sanremesi, che spesso ci vengono propinati in nome d’interessi che nulla hanno a che fare con l’arte.
Ma questa è la storia della discografia italiana e noi siamo qui con la mal dissimulata ambizione di volerla cambiare.