Rickie Lee Jones – Balm in Gilead, recensione
A trent’anni dal primo disco, dopo un lungo, lunghissimo viaggio, la cantautrice di Chicago ritorna a casa.
Potrebbe essere questo il sunto di questo lavoro, a cavallo fra il folk ed il blues, di Rickie Lee Jones.
Un lavoro nato dai brani inediti scritti nel corso degli ultimi venti anni e pubblicati in questo album, nel quale sono frequenti le ospitate di colleghi illustri, fra cui possiamo trovare Ben Harper, Bill Frisell e Vic Chesnut.
Si respira un senso di rilassatezza, fin troppa viene da dire, ed il senso di tranquillità viene percepito anche grazie alla semplicità degli arrangiamenti strumentali e delle parti corali.
Onestamente questo lavoro non entusiasma: non ci sono brani indimenticabili ed il loro scorrere dà l’idea di un collage un po’ forzato, con l’ascolto che viene in alcuni tratti penalizzato dal salto di stile fra un brano e l’altro.
In alcuni tratti si avverte anche la presenza di ospiti non invitati, ma ben percepibili nello stile dei brani: “The moon is made of gold” e “Bonfires”, ad esempio, potrebbero tranquillamente fare parte del repertorio di un’altra Jones, quella Norah così abile nel riuscire a spacciarsi per cantante jazz, ma la cui matrice appare in realtà fondamentalmente country.
L’ascolto inizia e “Wild girl” e “Old enough” scorrono via: la prima fra cori dolciastri ed una chiusura da atmosfera natalizia, la seconda arricchita dalla voce di Ben Harper, che non graffia pur portando qualche venatura blues nel brano, che resta comunque coinvolgente e viene caratterizzato da arrangiamenti di fiati e organo.
“Remember me” è la solita ballata acustica country vecchio stile, davvero dura da mandare giù soprattutto per chi non ama (per non dire di peggio) particolarmente il country.
“The moon is made of gold”, scritta dal padre di Rickie a metà del secolo scorso, è un riuscito esercizio di stile, mentre la seguente “His jeweled floor”, chitarra e banjo con in aggiunta fisarmonica e una manciata di elettronica, è una ballata piuttosto piatta, che mescola atmosfere gospel ad atmosfere scozzesi.
“Eucalyptus trail” inizia promettente, ma nello sviluppo il brano si perde fra cori e archi, trascinandosi noiosamente, mentre la successiva “The blue ghazel” è un riuscito brano strumentale, che con la successiva “The gospel of Carlos, Norman and Smith”, in cui si sente la voce del compianto Vic Chesnut, rappresenta probabilmente la parte migliore dell’album.
“Bonfires”, con i delicati arrangiamenti di chitarra acustica, e “Bayless St.”, arricchita da fisarmonica, violino e mandolino, chiudono l’album dolcemente, scivolando via senza che resti quasi nulla, purtroppo, sulla nostra pelle.
Questo è in sostanza un album per i fan della cantautrice di Chicago e difficilmente questo lavoro creerà nuovi fan di Rickie Lee Jones: si tratta per buona parte di musica di sottofondo ed è a tratti davvero difficile stare svegli in poltrona senza avere nel frattempo un giornale fra le mani o un amico con cui chiacchierare.