Red Hot Chili Peppers – Stadium Arcadium
Se viaggiando su internet vi imbattete in Wikipedia, alla voce Red Hot Chili Peppers troverete sotto il lemma genere: Rock, Funk rock, Funk metal, Pop rock, Rapcore, Alternative rock, College rock. Alla lista si potrebbero aggiungere senza troppi problemi molte altre categorie e sotto generi, ma la lista non sarebbe mai completa perché nel bene e nel male, la band losangelina ha saputo nel tempo attraversare campi musicali diversificati. Il tentativo è stato quello di rinnovare se stessi, nell’onorevole manovra di esplorare nuovi lidi e probabilmente nel meno decoroso tentativo di conquistare le charts, con un easy listenig piuttosto innervosente emerso negli ultimi anni.
Nonostante tutto, questa ultima fatica di Kiedis e soci appare nella sua completezza, un lavoro curato e soddisfacente, anche se oramai è innegabile che i Red Hot Chili Peppers si sono smarriti dopo il Blood sugar sex magik tour. Non è certo necessario risalire a pietre miliari come “The Uplift Mofo Party Plan” e “Freaky Styley”, per scoprire la natura genuina dei Peppers, ma sarebbe bene che le nuove leve di ascoltatori cerchino di apprezzare i nuovi prodotti alla luce della genesi iniziale del gruppo per poter ritrovare reminiscenze di sonorità perdute. Porgendo lo sguardo indietro, mi rendo però conto che, se “One hot minute” mi aveva destabilizzato e “By the way” mi aveva disgustato, oggi mi ritrovo ad ascoltare il basso di Flea con un altro spirito. Mi sono arreso all’evidenza e complice l’imballaggio piuttosto curato del prodotto, ritorno a sorridere e a godere dell’ascolto della band. L’unico vincolo è quello di capire (ma è stato piuttosto difficile accettarlo) che I Red Hot sono entrati in una seconda repubblica, lontana parente di quella antecedente.
“Stadium Arcadium” è tutto sommato un disco semplice ma discreto, che riesce a trarre dalle sue sonorità la verve di ieri, amalgamandola con il sound di oggi, facendo gioco forza sulla sempre perfetta voce di Anthony e il basso di Michael Balzary, alias Flea. Il nuovo creato ha conquistato le classifiche mondiali con le sue 28 tracks, (anche se inizialmente avrebbero dovuto essere addirittura 38!). il disco è suddiviso in una prima parte, un poco troppo adulatrice (Jupiter), ed una seconda più convincente (Mars). La digipack version, molto curata del cd è corredata di un corposo booklet interno, che ha nei font microscopici e negli inchiostri poco leggibili l’unica menda. Dal punto di vista prettamente musicale la band offre obbiettivamente molto di se, attraversando diversi sentieri musicali che vanno dalla banale e ovvia “Dani California” alla più convincente “Snow (Hey Oh)”, il cui riff persuade e trasporta. Il meglio di Jupiter emerge però con la bella titletrack “Stadium Arcadium”, ballata dolce e riflessiva, e “Slow Cheetah”, in cui la mano di John Frusciante si fa sentire in maniera notevole, tanto da poterla considerare (alla pari di “Strip my mind”) una naturale prosecuzione di “Shadow collide with people”. Ogni tanto per fortuna I Peppers regalano ricordi funkeggianti come in “Hump de Bump” e “Torture me”, anche se il valore intriseco non è dei più alti, con rare eccezioni come “Wet sand” una vera e propria araba fenice nata dalle ceneri del 1991.
Il meglio di se, pur all’interno di un’aurea edulcorata, come si diceva poche righe addietro, si ritrova all’interno del pianeta “Marte”, il cui viaggio inizia con la deliziosa acustic track “Desecration smile”, canzone dalla partitura piuttosto semplice ed essenziale, con un Frusciante in evidenza con la sua verve realizzativa che lascia quell’impronta mancata ai Peppers nell’era Navarro. L’ascolto prosegue attraverso il funky di “Tell me Baby”, di interesse trascuraibile, per poi approdare alla virata sonora della melodiosa “Hard to Concentrate” da cui emerge il delizioso solo ritmato dal basso di Flea. Infine non si può non evidenziare tra i più felici episodi marziani “Readymade”, che riesce ad legare il rock più informe con sonorità più scorrevoli. L’album, prodotto dal monstre sacrè Rick Rubin, appare comunque un buon compromesso tra le esigenze strutturali della band di oggi e lo sguardo verso le origini. Un disco che se non fosse dei Red Hot sarebbe un double da quattro stelle, ma che si riduce a tre per l’evidente potenziale lasciato nell’hangar.